Cercare alla voce «memoria». Nella quotidiana resa al ricordo, quando gli oggetti vengono a dirci ciò che è stato, e ciò che è stato invano. Nella poesia di Cesare Viviani c’è una «dimenticanza» colpevole, una riduzione dell’essere umano e mero pretesto narrativo. Noi siamo soltanto una funzione ridotta della parola, protesi sempre all’indietro, con la schiena curvata verso il ricordo. Il suo Dimenticato sul prato (Einaudi, 2023) è una silloge schietta e dura, con pochi momenti di salvezza: di chi è la colpa dell’essere dimenticati? Chi ci chiama per nome su prati che sono metafora di luoghi immaginifici? Chi ci dà e toglie la vita, in questo contrasto terrificante tra quello che siamo e quello che vorremmo essere?
Quelle di Viviani sono tutte domande aperte prive di risposte certe e il ritmo serrato dei suoi versi scarni non fa altro che ricordarci l’approssimazione, il disequilibrio che si nutre delle nostre vite incerte.
Una frammentazione costante che procede per tentativi di risoluzione e dubbi, soprattutto se il poeta approda alla questione amorosa. Un prato, quello dell’amore, che Viviani indaga con circospezione: «La verità nell’amore / proviene dalle idee contrarie».
Uno sbalzo perpetuo dunque, un sistema emotivo che non si sottopone a leggi uniche.
«L’amore non è amato», e basti questo verso a tracciare un’impronta minima di stile poetico che non ha necessità di svolgersi altrove. Quella di Viviani è una «secchezza» semantica che basta a fare la poesia.
Erica Donzella
La conversione
non fu sradicamento
o eccelsa mutazione,
ma quel leggero movimento
di volgersi indietro, mentre
ti allontanavi,
facendo comparire appena il profilo
del sorriso.
Lei ha dimenticato pensieri e tempo
alla differenza minima
tra l’anima che si salva
e l’anima che si perde,
sublime ardore, lei ha capito
dove cercare l’amore.
Parlano gli oggetti posseduti
e le vite del passato,
parlano i procedimenti e le aggregazioni,
parlo da solo.