Su Diario di un autodidatta di Alfonso Guida (Guanda, Milano 2025).
Dimora in alto, Alfonso Guida, come un mistico contemporaneo si muove nella parola che diventa l’invisibile, il suo tempio sacro, dove custodirsi per allontanarsi, per proteggersi dal caos quotidiano e volgare della realtà, quando la notte diventa un luogo veloce per cantare «salmi di ammaestramento», per vagare e pregare quando «la strana marea scomposta» lo sputa al largo del suo scompenso. Si muove come un dio orientale sulle macerie di una vita trascorsa in bilico sulle tre figure che portano un messaggio, a mo’ di visitatori celesti che aprono e che risvegliano i corridoi reconditi della psiche: la madre, il padre e se stesso.
In Diario di un autodidatta, edito per Guanda nella collana diretta da Mario Santagostini e candidato nella cinquina del Premio Strega Poesia, si percepisce l’anima innocente e sacra dell’autore che soffre del male umano che subisce, sfalda inevitabilmente l’inconscio facendolo scivolare nella più segreta notte orfica: «Foca monaca, mia madre. Mercante contrabbandiere zingaro, / mio padre. Sono stato educato come il fiore di una terra che manca l’emersione. Mi hanno vestito come un animale dal doppio / sesso metà Marco Polo metà Giovanna d’Arco. Mi hanno reso / bestia rara, rinchiusa. […] Mi sono ricacciato dentro il grembo di un mondo immaginario per restare vivo, uomo degno di morte e infinito. L’amore / è non perpetuare lo sbaglio».
Dall’angoscia e dal dolore, il diario diventa un’autobiografia in prosa poetica fatta di travestimenti, di luce, di sangue e di demoni da combattere come hanno fatto per millenni i mistici folli di Dio nel deserto dell’anima: «Solo tu senti chi ti parla dentro. / Nessuno è solo. Parlare è invisibile. […] Chi è folle è privo di una mente morbida». È l’Uno che cerca follemente l’autore con la potenza della parola che ha la capacità di dire l’ineffabile. Lo fa con la rabbia, con l’incanto della narrazione, con il suo magismo, con l’immaginario estremo e visionario di una terra periferica, un Sud marginale che si è involuto su se stesso, conservando una sua innocenza, una sua castità che lo sublima, trasfigurandolo in un luogo mitopoietico, un non luogo, con la sua storia carica di dolore e di miti, una terra con i suoi fallimenti.
In questo si sente chiara la voce di Salvatore Toma, di Beppe Salvia, di Claudia Ruggeri, di Amelia Rosselli e di Pier Palo Pasolini a lui vicini per fratellanza e sorellanza poetica: «Ma è da questo non luogo che uno è due e due resta due. Ma è / da questo non luogo che il due trasmuta in un numero periodico, / costante. Rimanda all’infinito. Rimanda a un cielo unito. Due ciechi che s’ignorano. Questa gioia di croce, questa età adolescente, / questa letteratura dell’identità come pronome indefinito».
Anita Piscazzi
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