Raccontami cosa si prova
a portare alla bocca un bicchiere
calibrando bene il moto e il peso
tra labbra e polso,
e bere. Raccontami
com’è camminare
sentendo la terra sotto la pianta
e la tensione dei muscoli così leggeri,
correre e saltare.
Raccontami, se lo ricordi ancora,
il tempo in cui si gattona
e quello di un morso
alla mela mentre gocciola il succo sul braccio.
Raccontami, dal ricordo di un’immagine o d’invenzione:
com’è pettinarsi
e farsi scivolare un abito di seta,
mettersi il rossetto
per ammirare poi lo spettacolo della maschera.
Se allo specchio non ci riconosciamo
è perché non ci conosciamo;
se, pur vedendoci, non ci vediamo,
è perché vediamo.
La conoscenza sprofonda nel sonno,
la visione è cieca.
Solo l’anima conosce,
ma è una stella polare direttiva e altissima,
è una colonna vertebrale scissa,
avvolta nel bozzolo della cecità o rimozione.
Io con te non avrei fatto l’amore:
mi sarei scambiata l’anima.
Sul letto uno sopra l’altro
al bordo dell’abisso ridendo.
Contando le stelle per metterle in saccoccia
illudendoci d’eterno.
Ti avrei chiesto un’intervista a me stessa
dove io avrei scritto le domande
e tu le mie risposte.
Come due fanciulli,
come quando ci siamo lasciati.
Paola Tricomi, Fiat (Interno Libri, 2024).
Esiste una realtà non meno reale di quella in cui ci troviamo ad agire, un’alternativa quantistica che «l’invenzione» della poesia chiama a testimone di una verità che vuole essere conoscenza dell’invisibile, ovvero ignoranza di ciò che si vede. Fiat di Paola Tricomi, edito per Interno Libri, è una preghiera all’Esistente – sulla scia del Zanzotto di «mondo, sii, e buono» – e al tempo stesso un’esplorazione inesausta di quell’attimo in cui l’infinito ventaglio delle possibilità si schiude per dare alla luce un unico frutto. Il “tu”, o per meglio dire la fessurazione dialogica che è la cifra del libro, in Di racconto e d’invenzione palesa la sua natura di fantasma verbale, interlocutore presente-assente nel momento del farsi poesia. L’esattezza dei gesti del corpo rivive così nel «ricordo di un’immagine» che non coincide con «lo spettacolo della maschera»: lo specchio rimanda a un colloquio asincrono, a una visione che è «cecità o rimozione» di un presente. Il Fiat di Paola Tricomi, allora, pur nella discrepanza di tempi, di dialoghi impossibili in una realtà definita, è un invito a ricercare il seme della creazione universale nella contingenza dei corpi e nel molteplice delle forme perché la vera conoscenza, quella che poi cristianamente diventa un fatto di carne, è solo dell’anima; un cantare la gioia della forma più alta di amore, lì dove i pronomi si annullano e «dove io avrei scritto le domande / e tu le mie risposte».
Pietro Russo