Datemi un corpo che rompa il vuoto – Elena Cattaneo

Datemi un corpo che rompa il vuoto - Elena Cattaneo

 
 
(ricamo)
 
Abbacinati davanti allo specchio che urla
dal silenzio della presunzione avvolti.
Dissecata è l’arteria e non trattieni
il sangue.
Nessuno si è accorto del pallore
delle chiacchiere mute
della rottura.
Accettare quello scheletro
di coniglio.
Era grasso e tornito,
quante mani unte ne hanno pasteggiato.
Contargli le costole, farne
quadro.
        Dici che esagero mio amore?
        Sto morendo amore mio
Lo specchio è vuoto.
Mentre fuggivano spargevano asfodeli
volevo interrogarli, ma tant’è.
        Dici che recito amore mio?
        Sto sparendo mio amore
Ricuciamo e onoriamo la trama
sutura che al polpastrello pare
ricamo
        richiamo.
 
 
 
 
 
 
(quasi un compleanno)
 
Ho paura della fame
che mi incunea nella roccia.
Un assalto di ragni albini
a ricordare che non sono
frutto tondo.
 
Elisheba non mi è madre.
 
 
 
 
 
 
(la crudeltà)
 
C’è sempre come un’attesa
in chi si sa non-partorita
frutto immaturo
ciliegia di plastica cucita
chissà come
ad un cappello di paglia
 
 
 
 
 
 
(sul campo di ghiaccio con mamma)
 
Datemi un corpo che rompa il vuoto
in luce obliqua
per la comprensione
 
senza pieghe d’affetto
e insenature buie
 
datemi un corpo che lei ami
 
il suo
 
 
 
 

Come ho avuto modo di evidenziare già in un precedente intervento, la poesia di Elena Cattaneo è caratterizzata da una vena sotterranea che la attraversa e che lascia intendere, senza esprimerlo mai apertamente, che la sua origine sia dovuta a un trauma che solo la parola poetica può rappresentare, senza alcuna presunzione di poterlo risolvere compiutamente. La poesia della Cattaneo non è tuttavia l’ammissione di una resa, ma il tentativo di una decifrazione, mai consolatoria – o, peggio, assolutoria – di questo trauma, che prima ancora che personale è universale, essendo direttamente collegato al mistero della nascita e della maternità, filo conduttore di molti suoi versi. Maternità vissuta nella duplice forma di maternità ricevuta (come figlia) e donata (come madre): i due piani spesso si intersecano e si contaminano a vicenda, creando equivoci di senso che amplificano questa conflittualità e danno un colore personalissimo ai versi.

Per dare concreta rappresentazione del trauma, la Cattaneo si serve di una lingua netta, affilata: ne deriva una poesia per immagini in cui la componente simbolica e analogica della parola viene dosata con efficacia, non rifuggendo da una certa resa espressionistica: “specchio che urla”, “scheletro di coniglio”, “mani unte”, “contargli le costole”, “un assalto di ragni albini”, “insenature buie”, con una valenza semantica da cui è possibile dedurre un’idea dell’esistenza come atto di violenza subito, compito oneroso che spetta a ciascuno affrontare, per convogliarne la “luce obliqua” verso un’auspicata “comprensione”.

La consapevolezza della ferita è insita nella ricerca della cura, la “sutura” a cui si allude nel primo testo impiegando la metafora del “cucire” – qui nella forma di “ricamo” – metafora di cui troviamo traccia anche nella Anedda di Salva con nome (Mondadori, 2012) e prima ancora in Seamus Heaney (vedi At Banagher), sicuramente frequentati dall’autrice. Elena Cattaneo rielabora questa metafora drammatizzandola con inserti dialogici (o monologhi con un “falso tu”?), per “farne / quadro”, come se la trasposizione visiva del conflitto potesse sedarlo e da “ricamo”, per assonanza, veicolarlo in “richiamo”, da contrapporre alle “chiacchiere mute / della rottura”. La poesia – ci ricorda Elena Cattaneo – è, per definizione, la negazione della chiacchiera, fare il conto con le parole come mezzo conoscitivo, volontà di interrogare ciò che sfugge restituendo il proprio ruolo al linguaggio (“Mentre fuggivano spargevano asfodeli / volevo interrogarli, ma tant’è.”).

La poesia della Cattaneo non procede mai per compromessi, espone la ferita quasi con impudicizia (“Disseccata è l’arteria”, “Lo specchio è vuoto”); anche quando usa la litote, come nel titolo “(quasi un compleanno)”, in realtà assistiamo, per il suo tramite, allo stravolgimento dello stesso concetto sotteso. E questo senso di inappartenenza, l’idea di essere “non-partorita”, prende corpo per gradi con l’immagine del “frutto” che attraversa i testi: all’inizio come negazione della compiutezza (“non sono / frutto tondo” e a seguire, non a caso, “Elisheba non mi è madre”), poi come ammissione della inadeguatezza (“frutto immaturo”), per culminare nella contraffazione o nell’adulterazione (“ciliegia di plastica”) dove il frutto è ridotto alla sua caricatura, a materia inerte. Qui la metafora del “cucire” riappare, ma depotenziata dalla immagine del “cappello di paglia”, che vanifica la possibilità ipotizzata di un rimedio salutare.

Nell’ultimo testo l’invocazione al “corpo”, topos ricorrente in molta poesia, specialmente femminile,  evita gli stilemi triti di certa “poesia del corpo”: qui, in uno scenario di “ghiaccio” (che fa pensare a Wallace Stevens) , come recita il titolo, il corpo viene assolutizzato a lama che può rompere il vuoto nella sua “luce obliqua” (viene in mente ancora Anedda, Notti di pace occidentale (Donzelli, 1999): “con un coraggio obliquo / con un gesto minimo di luce”). Tuttavia, “senza pieghe d’affetto”, ossia cedimenti sentimentali. Il corpo è lo strumento per la riappropriazione dell’autenticità, sottratto alla contingenza e ricondotto all’origine, a una maternità restituita, in cui madre e figlia possano riconoscersi in questo terreno comune: “un corpo che lei ami // il suo”.

In tutti questi testi madre e figlia, realtà e simbolo insieme, cercano di ricongiungersi, combattono contro la loro separazione, per ritrovare un corpo / identità che possa finalmente diventare “il loro”. È in questa tensione conoscitiva, sfuggente e pervicacemente inseguita, che gioca dialetticamente la poesia di Elena Cattaneo.

Fabrizio Bregoli