Conversazione con Paul Muldoon in occasione della consegna del Premio di Poesia “Città di Pescara – Sinestetica” 2024

Con grande orgoglio proponiamo un’intervista a Paul Muldoon, Premio di Poesia “Città di Pescara – Sinestetica” 2024, curata dal poeta e Presidente del Centro di Poesia e altri Linguaggi Loretto Rafanelli. A integrazione della presente intervista segnaliamo l’articolo di Davide Castiglione uscito in contemporanea su pordenoneleggepoesia.it, Meeting the British di Paul Muldoon (QUI), ma anche gli articoli dei nostri redattori Fabio Barone su Il Messaggero – Abruzzo del 5 giugno (QUI) e Vernalda Di Tanna su Chiaro Quotidiano dell’8 giugno (QUI).

La Redazione

 

Foto di Alessandro Battista

Loretto Rafanelli: Chiediamo a Paul Muldoon innanzitutto se lo possiamo definire un poeta pop, non semplicemente perché ha curato un volume di Paul McCartney (The Lyrics, in italiano edito da Rizzoli) o perché si è sempre interessato ai fenomeni culturali underground, alla popular music e ha seguito varie manifestazioni genericamente inquadrabili in questa cornice. Dire di un poeta pop, nel caso di Muldoon, non è sottostimare una espressione artistica, ma valorizzare i tanti input che giungono dalla musica, dal cinema, dal teatro, da un’arte eccentrica e poliedrica come la pop art o dai fumetti e dai programmi televisivi, senza dimenticare i romanzi (penso ad autori come Sherwood Anderson o Carver). Il tutto soprattutto negli spazi antiaccademici.

Paul Muldoon: In questo panorama il discorso ci può stare, anche se il termine pop a volte ha aspetti che non sono condivisibili, però indubbiamente i miei interessi sono molteplici e certo la canzone è qualcosa che mi affascina, e i Beatles in particolare. E poi c’è la mia amicizia con McCartney che mi ha portato a curare il libro a cui hai accennato. Rimane tuttavia salda la mia attenzione al mondo poetico, chiaramente partendo da Seamus Heaney, mio grande maestro.

 

L. R.: Per la tua poesia si è detto di un linguaggio plurilinguistico, in cui narrazioni, tradizioni, miti, si incrociano in un crogiolo davvero molto ricco, poi ci sono una serie di assonanze, rime, traiettorie e incroci linguistici, quindi una lingua ricca. Qualcuno in Italia ti ha accostato ad Andrea Zanzotto, poeta che esprime nella sua poesia questo plurilinguismo.

P.M.: Il poeta ha un obbligo immenso nei confronti della lingua, della propria lingua e di ciò che la lingua suscita in chi la usa. Per questo mi sono sempre occupato di tutto ciò, andando anche alle origini della mia lingua, ma pure sconfinando nelle altre lingue, in tutte le lingue, anche nell’italiano, che è una lingua fondante, con la grande lezione di Dante. E ho cercato le relazioni fra parole e parole provenienti da diversi Paesi, prendendo vocaboli stranieri e mettendoli nelle mie poesie. Questo anche per sovvertire a volte i termini del discorso e per far notare la consanguineità.

Foto di Alessandro Battista

L. R.: Nella tua poesia c’è molta ironia. C’è ironia ma non vedo cinismo, le situazioni a volte si aggrovigliano, si lasciano in vicende tragicomiche, ma sempre vi è un antefatto o qualche profonda verità che sottintende la scena, come nel caso della poesia I visitatori, in cui narri dei componenti di una famiglia, penso la tua, che vanno a vedere una rotonda, appena costruita, a bordo di una vecchia macchina: «Lo zio Pat ci stava raccontando di come la polizia speciale / l’avesse fermato una sera vicino a Ballygawley / e gli avesse distrutto la bicicletta / e fatto cantare un inno protestante e maledire il papa di Roma. / Gli avevano premuto una pistola così forte contro la fronte / che c’era un segno a forma di O quando tornò a casa». Qui, pur nel grottesco, pur nei passaggi strambi, si apre lo scenario della guerra fratricida tra cattolici e protestanti (N.d.R.: Muldoon è cattolico) e la O sulla fronte richiama sì la rotonda appena vista, ma pure la violenza vissuta in quelle terre, in cui la fronte era il bersaglio delle tante armi contrapposte. Ironia, dicevo, ma mai cinismo. C’è sempre rispetto e accoglienza verso l’altro, in un senso di apertura assoluta, fino a poter dire che ci pare tu sia contro la logica dei confini.

P.M.: Certo, io sono contro i confini, sono per una libertà assoluta di circolazione e di relazione fra i popoli. Partecipo, sono solidale con le sofferenze dei tanti migranti del mondo, una storia terribile dei nostri giorni, e non solo.

 

L. R.: E parlando di confini e di identità, vorrei riprendere la tua ammirazione verso un grande poeta inglese, Auden, un poeta di riferimento per te. C’è anche una tua poesia che racconta di te che vai nella sua casa a New York, proprio per ripercorrere i suoi passi. Auden era un espatriato, era un uomo in fuga. Tu che dall’Irlanda vai negli Usa, e poi vivi a New York, anche tu ti ritieni un espatriato? Ti senti in questa condizione, ti consideri un uomo in fuga o semplicemente ti senti un uomo senza confini?

P.M.: Più che un uomo in fuga, mi sento un uomo senza confini, e auspico la massima libertà e questa dimensione diciamo universale che vivo, mi soddisfa molto. Per quanto la mia vita sia in buona parte stabile a New York, ho molto viaggiato. Certo, la storia di Auden è tutta un’altra cosa, quando lasciò l’Inghilterra per i motivi che sappiamo, era difficile per lui ritornarvi. Io vivo una situazione diversa, posso spostarmi facilmente e se vivo a New York è perché lì ho famiglia (N.d.R.: la moglie di Muldoon, Jean Hanff Korelitz, è una importante scrittrice statunitense, i suoi romanzi hanno avuto adattamenti cinematografici e televisivi). Ora peraltro sono docente nelle Università di Belfast e Dublino. Non si può quindi dire che io sia un espatriato o un uomo in fuga.

Foto di Alessandro Battista

L. R.: Mi interessa la tua attenzione nei confronti del poeta americano Robert Frost, verso cui hai speso parole straordinarie, ricordando che egli ha un uso della lingua semplice, ma assai profondo.

P.M.: Ti ringrazio per avere citato Frost che è indubbiamente un mio grande punto di riferimento. Non posso soffermarmi sui concetti di “complesso” e “complicato”, ma credo sia giusto sottolineare che un poeta non vuole essere per forza complesso e complicato. La chiarezza comunque è difficile da raggiungere in ogni cosa, anche se si vuole definire un oggetto semplice come un bicchiere, le poesie è inevitabile che abbiano un certo senso di complessità, perché affrontano questioni complicate, ma è anche vero che le poesie vengono considerate complicate da persone che non conoscono la poesia, che non si applicano per conoscerla e a volte pensiamo che ci voglia una guida per capirle. Suggerisco di esaminare la poesia in modo tranquillo, e se siamo distesi, magari mangiando un panino o bevendo un tè. Allora credo che possiamo capirla.

 

L. R.: Nelle tue poesie parli anche di catastrofi, di carestie (ad esempio quella tremenda del 1845 in Irlanda, con un milione di morti), di alcune vicende storiche (come la guerra in Ulster), pensi che il compito del poeta sia quello di dare testimonianza, di denunciare, di esprimere solidarietà?

P.M.: Un poeta non si deve sentire mai obbligato a dire per forza qualcosa, l’unico obbligo che il poeta ha è nei confronti della lingua. Ma allo stesso tempo il poeta non può essere fuori dalle cose del mondo. Certo, oggi ormai tutti si sentono obbligati a dire qualcosa su tutto, una aspettativa forse anche giusta, ma la storia dell’umanità è la storia di una crisi dopo l’altra, davvero non c’è una crisi che non abbia delle premesse, che non sia annunciata; dobbiamo capire questo, capire le ragioni che stanno a monte e poi, eventualmente, dire.

 

L. R.: La tua poesia è stata definita da un critico inglese, allo stesso tempo, «la più caratterizzata, la più elusiva», che ne pensi?

P.M.: La poesia è in realtà molto più profonda di quanto possa spesso apparire ed è difficile intendere un percorso poetico da parte dello stesso poeta. Il critico, poi, può e deve dire ciò che pensa.