Nel secondo numero del “Nuovo Almanacco del Ramo d’Oro” (serie speciale di “Laboratori critici“, a cura di Gabriella Musetti), uscito a dicembre 2024, la redazione composta da Roberto Dedenaro, Giovanni Fierro, Claudio Grisancich, Marco Kravos, Gabriella Musetti, Sandro Pecchiari, Marijana Šutić, Francesco Tomada e Rodolfo Zucco, ha deciso di inserire una sezione di piccole recensioni dal titolo Contrassegni. Tali recensioni escono anche su Laboratori Poesia.
Uscito quest’anno a febbraio, il volume raccoglie gli otto libri che Ida Travi ha pubblicato dal 2011 al 2022 sulla saga dei Tolki, prima con Moretti&Vitali, poi con le artigianali Edizioni Volatili. Il libro ha vinto il Premio Napoli e il Dessì dell’anno in corso. Questa pubblicazione con Il Saggiatore espone, tutta intera, la grandiosità dell’opera che nei libri precedenti era attesa, dai lettori e dalle lettrici affezionate, come una saga a episodi per addentrarsi sempre di più nel mondo distopico e mitico del Tolki, non personaggi ma esseri (umani) remotissimi e contemporanei o futuri di una desolata terra ai margini. La prima scossa sottile che ci attraversa alla lettura è la voce femminile che parla: non una mediatrice o una narratrice, ma una voce interrogante, diretta, che mette in scena qualcosa che accade nelle nostre menti. Ida Travi riesce a restituire una voce orale nella scrittura con una intensità d’ascolto simile a quando la poetessa dice oralmente i suoi testi. E qui il “dice” è appropriato, in quanto non si tratta né di una interpretazione o recitazione né di una lettura: la poeta ferma, con gli occhi chiusi, con tono sommesso e grande concentrazione si lascia attraversare da una voce parlante. Il mondo dei Tolki, i parlanti, e poi, nel seguito dei volumi, di altri esseri che forse sono ancora o erano i Tolki, e forse no, è un luogo ampio, caratterizzato da lande piene di fango, di neve, di polvere, con quelli che sembrano resti di una civiltà passata, rottami accumulati, pompe di benzina dismesse, capannoni, schermi, secchi per l’acqua, recinti diroccati, ma anche volo di aerei, tavolette di computer accese nel buio, una luce elettrica che a volte non c’è, in uno spazio separato dal tempo, in cui gli esseri che lo abitano ripetono azioni elementari, sempre le stesse: si alzano, si inginocchiano, portano una carretta, strigliano l’asino, pregano, spastano sacchi di farina, si cercano, si chiamano, sono esseri individuali che non rappresentano una vera famiglia e neppure una comunità, ma hanno relazioni tra loro, condividono questa realtà in cui non accade niente, non ci sono mutamenti o svolte o passaggi: tutto rimane in una dimensione di incompiutezza, di continua iterazione dei gesti, delle parole. Più volte Travi ha ricordato in interviste e saggi che molto della sua immaginazione e scrittura ha radici profonde nel cinema: Godard, Bresson, Kiarostami, per citare gli autori di maggior riferimento. E infatti le immagini spesso emergono dalla lettura come inquadrature singole, ricche di dettagli, in uno spazio dai lontani contorni sfocati o slabbrati. In questo mondo detto sostanzialmente al presente, tuttavia, ci sono numerosi richiami a ciò che è accaduto o potrà accadere, nelle singole interlocuzioni dei diversi parlanti che si rivolgono a qualcuno che non c’è fisicamente, non è presente, forse è andato via, forse è morto ma rimane vivo e parlante nella memoria, che scandisce un tempo altro, diverso da quello dell’orologio. Tutto questo parlare, chiamare qualcuno, interrogare, ripetere gesti, muoversi nello spazio dove sembra non ci siano mutamenti, suscita in chi legge un vago senso di inquietudine, come di una tragedia incombente, lontana, una catastrofe sconosciuta possibile. È il tono sommesso a dare queste sensazioni, le domande dirette, le richieste semplici di una comunicazione elementare che sortiscono un effetto opposto.

