Con le parole che scrivo io do il mio addio al mondo – Paola Silvia Dolci

 
 
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La bambina viene posseduta da un demonio
e smette di vedere un colore alla volta,
prima di morire.
Mi ha detto la strega delle erbe, finché vede i colori,
va tutto bene. Il giorno successivo
la bambina confessa di non vedere più il giallo,
come il sole e le epidemie.
 
 
 
 
 
 

Quando cala il buio,
i fantasmi del mare si addensano,
si avvicinano, si nutrono sia della notte,
sia dell’acqua.
Quando spunta il sole, i fantasmi
corrono ancora sul filo dell’acqua.
 
 
 
 
 
 
La bambina dice che io sono una farfalla spaventata.
“Un sangue debole di consistenza, una linfa rosacea”.
Non mi sono mai vista come qualcosa di delicato.
Con le parole che scrivo io do il mio addio al mondo.
 
 
(Paola Silvia Dolci, inediti)
 
 

Tre testi dove l’inconscio si fonde al perturbante, il reale si fonde al surreale, il pensiero al sogno, alla visione, alla allucinazione, questi di Paola Silvia Dolci: il risultato è una serie di rapidi tratti di colori e sensazioni che delineano un mondo altro, separato e alternativo (ma anche complementare) – non è dato sapere se appartenente all’io del testo, all’amalgama del subconscio, al passato.

Con un dettato che appare quasi una cronaca, si mostrano in sequenza episodi dal valore simbolico che realizzano una dimensione affine all’unheimlich, un modo di pensare primitivo, magico e sovrannaturale, che l’uomo razionale è convinto di aver superato, sormontato, concretizzando lo spaesamento ingenerato dalla lucida presa di coscienza intellettiva di questa dimensione altra (su questo tema consiglio il saggio di Sergio Benvenuto su “Le parole e le cose”, “Che cosa ci perturba del perturbante”, che evidenzia proprio questo fenomeno come prodotto storico dell’illuminismo e di una coscienza razionale e materialista, trovatasi ad affrontare l’emergenza dei propri fantasmi).

E così appare una “bambina”, apparentemente simbolo di un vivere incosciente, innocente, che “viene posseduta da un demonio / e smette di vedere un colore alla volta, / prima di morire”; la perdita di quel modo di essere così immediato, privo del filtro intellettivo, è una morte – “la strega delle erbe” (ancora un rimando a una dimensione sovrannaturale) “ha detto” che “finché vede i colori, / va tutto bene”, ma la “bambina confessa di non vedere più il giallo, / come il sole e le epidemie”.

Non vede più il sole, non più la luce, non più l’oggettiva realtà materiale – chi? la bambina? chi la contiene? chi la osserva? chi ne scrive? – non è importante, finché ciò consente di testimoniare che “quando cala il buio / i fantasmi del mare si addensano, / si avvicinano”; un mistero naturale si fonde ad uno sovrannaturale, e diventa prossimità fisica, “creatura” affamata sia del buio che del mare. Una tale esperienza del perturbante, anche quando la coscienza razionale riprende forza, non può essere dimenticata o rimossa: “quando spunta il sole, i fantasmi / corrono ancora sul filo dell’acqua”.

È certamente qualcosa che può lasciare disorientati, e difatti “la bambina” (nuovamente, non importa da dove arrivino le sue parole) “dice che io sono una farfalla spaventata” – e mette a nudo tutta la fragilità creaturale e materiale, ribadendolo con un verso di Àlvaro Mutis: “un sangue debole di consistenza, una linfa rosacea”.

Eppure, “non mi sono mai vista come qualcosa di delicato”, scrive la Dolci – inganni della razionalità, che rendono sotterranee e deflagranti le debolezze più antiche, quando riemergono come uno spettro attraverso la visione lucida dell’esistenza di cui ci si è fatti scudo; “con le parole che scrivo” conclude il testo, “do il mio addio al mondo”: questo, l’altro, non è specificato, e nemmeno è importante – è l’addio ad esserlo, la separazione, il gesto della volontaria caduta nell’altrove, l’accoglierlo.

Mario Famularo