Come due rocce incastonate nel tempo – Vuk Misic


 
Il Marinaio
 
Sull’arida superficie della prora
il corpo stanco adagiato,
osservavi con occhi privi di fiato
il tramonto che l’animo rincuora.
 
All’ultimo respiro dei raggi
il solitario cuore tornava i volti
a sfiorar con le labbra, miraggi
in rare profonde epifanie colti.
 
Tatuati sulla pelle contesa
ombre di carezze e il rimuginar
di cicatrici unite in acre distesa,
partisti, deluso dal comun pensar.
 
Eppure, inguaribile romantico,
sul punto d’esser dalle emozioni trite
vinto, incurante delle ferite
baciate dal sale, il tuo cantico
 
seguitavi, del vital soffio dei versi
le vele gonfie, verso i colori
al limitar dell’orizzonte dispersi,
e il nero incombente di nuovi dolori.
 
Un vento di speranza la canuta
barba ti mosse e le labbra sollevò
in sorriso e l’espressione vestuta
dell’amaro della vita illuminò:
 
raro e inatteso bagliore
riflesso nell’azzurro candore
dell’amica che con le onde ti cinse
e il tuo profondo tumulto estinse.
 
 
 
 
 
 
Scrittura
 
Come due rocce incastonate nel tempo,
ci offriamo reciproco sostegno,
dinanzi all’oblio del dirupo
senza fondo.
 
Eppure ad ogni passaggio d’un’anima,
ad ogni tenue bacio della pioggia,
ogni volta che il vento sussurra,
vengo eroso e non resta traccia
 
dei singoli granelli di sabbia
rapiti nell’altra metà della clessidra.
Muto il sembiante trafitto ad ogni rintocco
d’ora, rincorso dalle lancette dell’esistenza.
 
Tu invece, destinata a sfuggire
all’inarrestabile dardo del tempo,
raccogli il frutto del sacrificio
mio e di molti altri ai quali
 
in soccorso venisti, e serba
la memoria nostra ai viandanti
che ti incontreranno sotto varie
spoglie, sul sentiero verso l’eternità.
 
 
 
 

Nella scrittura del ventiduenne italo-serbo Vuk Misic, studente universitario capace e volitivo che in altri tempi per la sua formazione e identità avremmo potuto definire ideale figlio della Mitteleuropa, resiste al fondo una certa malinconia esistenziale, un dolore turgido che si accentua nel ricordo e che sempre nel ricordo, nel “riportare al cuore” per recuperare l’etimo latino primigenio, paradossalmente trova una sorta di crogiuolo lenitivo. Restituendo al verso una figura retorica ormai quasi dimenticata, la rima (sovente alternata), il poeta narra con frastagliate immagini un percorso, anche metaforico, verso la crescita e la maturità. Nella prima delle due inedite composizioni di recente fattura assistiamo a una deriva della fisicità a fronte di un riemersione di visioni e di sollecitazioni uditive del protagonista, un marinaio che con animo tipicamente Romantico (in ciò si sostanzia molta della produzione di questo giovane scrittore affascinato dal daimon della poesia) vivifica il proprio sé con l’epifania di forti sentimenti, spesso contrastanti e improvvisi. Vocaboli ricercati, talvolta un poco desueti (è il caso di ‘canuta’ che rima con il successivo ‘vestuta’) s’incistano in un periodare ritmicamente ben definito, privo di sbavature, dal ricco colorismo che sbiadisce sul finale. È una lirica che ci pone di fronte agli occhi cocenti, fulminanti immagini, come nei dipinti del tedesco Caspar David Friedrich e il suo viandante solitario: qui il marinaio, ad onta di tutto, sèguita con il suo canto (quasi una nenia) il suo peregrinare travagliato, offrendosi così, nudo e ferito dalla vita, all’osservatore sino a giungere a riscoprire una gioia leggera. La figura del ‘viandante’, che sia per mare o per terra, lo rinveniamo anche nella seconda composizione dove balza all’occhio una sorta di dialogo tra il poeta e la scrittura in un viluppo di dialogico confronto alimentato dal ruolo attribuito alla seconda, salvifica, duratura condizione nonché apotropaico elemento in grado di scacciare l’oblìo e l’assenza. Efficaci alcune delle immagini rappresentate: si noti, ad esempio, la clessidra che “prosciuga” e fa svanire ciò che è effimero dire, simulacro di un pensiero fuggente e fuggevole, viziato e falcidiato dal trascorrere e trascolorare della vita che assume la forma di un esiziale “dirupo senza fondo”. L’autore concepisce l’insipienza di un essere privo del nerbo dello scrivere, che permane quale unico conforto all’esistenza (il ‘vital soffio’ della precedente opera), insuperabile vincitore su ogni tempo e spazio a cui rivolgersi per riscattare la finitudine umana e così eternarla. Eppure, nonostante un “dislivello” valoriale e di funzione tra la semplicità dell’uomo e l’elemento, l’azione del narrare (quasi impersonato come fosse un altro da sé), entrambi si offrono reciproco sostegno. Misic dà prova, in questi versi liberi, di essere in grado di costruire una solida architettura letteraria abitata altresì da un lessico accurato, da una musicalità di sottofondo e da una prosodia apprezzabile.

Federico Migliorati