Colpa del mare – Bruno Di Pietro

Bozza automatica 320

Colpa del mare (Oèdipus Edizioni, 2002) di Bruno Di Pietro

Colpa del mare (Oèdipus Edizioni, 2002, postfazione di Alfonso Amendola) è la prima pubblicazione poetica di Bruno Di Pietro, classe 1954, napoletano.

Si tratta di una raccolta dall’equilibrio ammirevole, oserei dire oraziano, dove l’Autore realizza un’esemplare ponderazione tra lirismo, pensiero filosofico e descrizione puntuale, con una cura formale che va dall’attenzione ritmica ed eufonica del dettato, alla ricerca del nome prezioso di piante e fiori, dal richiamo sensoriale dell’odore e del sapore, alla capacità di fotografare un attimo, un gesto minimo.

L’accostamento alla letteratura latina viene suggerito sin dalla forma, epigrammatica:  Di Pietro procede per brevi e dense sentenze, mai assertive o didascaliche, spesso di un’ironia leggera, e a tratti amara.

Il postfatore parla di una “ferocia d’arcaica limpidezza”, di una poesia “dentro il cuore delle cose … vertiginosa di ricordi e assetata di vita”: sono elementi che sento di condividere, proprio per la tendenza, in questi testi, a trovare un senso profondo nella bellezza equilibrata e nascosta delle cose, la più essenziale, che arriva prima alla percezione dei sensi che alla ragione e al pensiero; essa è negli odori, nei sapori, nei gesti, trasfigurati nella natura come se fossero ricordi che rivivono attraverso l’intuizione del presente, dell’esserci.

Le parole che ne conseguono, tentando la rappresentazione di questo meccanismo, diventano parte di questo affresco, senza cedere al rischio degli eccessi o dei minimalismi: con equilibrio e precisione, appunto, mirabili.

La raccolta si apre con il gruppo delle Eleatiche, dove si assiste a un uomo ridimensionato dalle cose (“cospirano le cose a un solo scopo / dirti che non sei aquila ma topo”), in un contrasto tra l’immobilismo degli oggetti (“spaventa l’evidenza delle cose / il loro essere immobile impronta”) e il vento che le rimescola e trasforma (“benché il vento agiti mimose”).

“ma quale origine gli vuoi trovare / a quell’affanno che ci ha fatto soli”, chiede l’autore, evidenziando come nemmeno le parole possono aderire alla realtà, offrendo una risposta adeguata (“le parole confessano indigenti / la poca confidenza con il vero”).

… il sentiero in fondo è sempre uguale / e non c’è altra via che del ritorno”, anche nel tentativo di “… credere alla meta più che al viaggio”; in un divenire che ingenera smarrimento e perdita di riferimenti, si affacciano, nella cornice dei testi, “… il fresco spandersi del timo … la linea dei cipressi … il fruscio dei salici … il pergolato / del glicine … (l’) ombroso faggio”: la presenza di elementi naturalistici si interfaccia direttamente allo spettro sensoriale e percettivo, operando la trasfigurazione cui si accennava in precedenza, che colora e alleggerisce sensazioni razionalmente gravi (l’ansia esistenziale, la precarietà delle cose e del tempo) di una serenità e di un equilibrio naturalissimi.

La raccolta procede con la sezione omonima, Colpa del mare: “l’accaduto accade perché deve”, anche se sembra insensato, “ … le cose hanno / l’umida natura di prigioni”; di nuovo il contrasto con l’ineluttabilità del divenire viene rappresentato con una tenerezza stringente, serena, che discioglie ogni apprensione di fronte alla fragranza del presente, e alla consistenza degli affetti: “penso che dovrei baciarti … avrò tempo per darti l’amore … nella tua morsa calda / che non si intende di costituzioni”.

Anche se consapevole dell’inganno “del corpo e delle sensazioni”, di quel “sedimento / che a te dà gioia / a me tormento”, si avverte un’ironia disincantata che affronta l’esistenza con atteggiamento positivo, nell’incanto del presente, nella sensazione che l’azione, e la ricezione del mondo circostante, possa avere valenza di conforto: “In tanto scrivo / bevo”, anche se “uguali a ieri / non siamo”.

In Canto di Liside (costante la presenza silenziosa del mare), il dissidio del pensiero continua a insidiarsi (“ho peccato perché ho creduto / speciale l’uguale / a se stesso sempre uguale”) e tra gli echi della storia del filosofo pitagorico – echi che si inseriscono in un coro di suggestioni classiche, soprattutto della Magna Grecia – “di Liside / che nulla poteva insegnare / se non ad armare navi / buone per la guerra / o per la fuga” … “niente mi resta da dire”; sullo sfondo, una “ … terra di ulivi / di tramonto / terra di sale / da Elea a Metaponto”.

Il rapporto tra pensiero e immediatezza del gesto, dei sensi, è di nuovo presente in Velieri in bottiglia: “chiuso in bottiglia inutile veliero” (il suggerimento sembrerebbe quello di osare “(l’) inconsulto destino del gesto”, piuttosto che contemplare un eterno e infruttuoso, quand’anche sicuro, rifugiarsi in una campana di vetro).

Nella seconda parte della sezione, in particolare, con un gioco di anafore Di Pietro si concentra sui piccoli gesti della quotidianità, sui profumi delle spezie, del caffè, paradossalmente preceduti dal ripetuto “poi dirai”: conflitto tra parola e ciò che descrive, tra pensiero e ciò cui cerca di aderire, conflitto dove la parola e il pensiero arrivano sempre in ritardo, sempre imperfetti (“e tornerai nel regno di parole / a dire “non è per niente questo / non è per niente questo che volevo dire” … e lo si confermerà in seguito: “il pensiero arriva sempre tardi”); piuttosto, sembra preferibile abbandonarsi dolcemente “in balia / della vite dell’estate di te del nulla / che quando vuole se vuole ti culla”.

In Avari fiori i dettagli degli affetti quotidiani diventano protagonisti: “il tuo leggero gemito in amore / le labbra appena aperte nel sorriso / avari fiori, come l’elicriso”, in una visione dell’amore di una delicatezza rara, millesimata, preziosa, tra baci donati con lo sguardo e piccoli gesti mai compiuti; questa tenerezza così posata si intreccia nuovamente con i profumi della natura circostante, tra “… uva dolce … fichi / traboccanti di resina … ai papaveri, al tiglio quando infiora … nel giardino di cedri e d’assenzio …” in una sinfonia di profumi e sapori dove diventano “cose da niente i baci”.

E ancora, questo sentire si intreccia con una serie di personaggi, vere e proprie maschere del quotidiano, che, come in risonanza, amplificano il senso umano dell’esistere, tra l’aroma di limoni, del vino con garofano e cannella, e i piccoli gesti di ogni giorno, in una serie di preziosi epigrammi che oscillano tra il cercarsi, il nascondersi, il ritrovarsi e il ritorno, in un vero e proprio inno alla bellezza delle cose più semplici, e proprio per questo così rare e preziose.

Iscrizioni omaggia con la stessa posatezza e tenerezza naturale la morte del padre: “ti porteremo papà il pane e il sale / su una tovaglia infiorata di vino / lampade ubriache di stille d’olio / serti d’aglio e l’anice e l’elianto / (nemmeno in morte ti s’addice il pianto)” sembrando ritrovare la presenza della persona cara nei dettagli della natura, che di nuovo sembra essere il luogo privilegiato della trasfigurazione del sentire, dell’esistere e della memoria.

La raccolta si chiude con Piccola suite, dove si puntualizza di nuovo quello che ormai sembra essere il leitmotiv del libro: “ti passa a volte accanto, ti sfiora / una ragazza col suo odore intenso / la brezza adolescente ti divora / brucia in un niente la ragione il senso” e ancora: “le parole non trovano la strada / per dire quest’esilio”.

I sensi, i gesti, gli attimi e la natura in cui sono contestualizzati, appaiono come i momenti più autentici e reali dell’esperienza umana; anticipano e superano ogni volta le parole e il pensiero, che attarda con fare stentato e imperfetto, quasi incespicando per raggiungerli.

Bruno Di Pietro ci offre un affresco di questa visione, della propria memoria ed esperienza, arricchita da un sentire appassionato ma mai straripante, da un tono mirabilmente equilibrato e senza eccessi, con un decoro e una posatezza esistenziale e umana che non possono che instillare un sentimento intenso, nostalgico e struggente allo stesso tempo; il tutto collegandosi ai luoghi, alle storie e al gusto formale della tradizione classica, che rivivono in questi versi con naturalezza e senza tendenze antiquarie.

 

Mario Famularo

 

 

Alcuni testi:

 

 

 

l’aurora illumina di luce greca
la linea dei cipressi e la ferita
labili in vero i segni che la vita
incide nel trapasso fra la cieca
 
notte la solitudine e l’invidia:
non ancora giorno ma nell’insidia
del rinnovato chiarore si stinge
la furia dei propositi e sospinge
 
a sperare in un buio che non tramonta
spaventa l’evidenza delle cose
il loro essere immobile impronta
(benché il vento agiti mimose)
 
 
 
ma quale origine gli vuoi trovare
a quell’affanno che ci ha fatto soli
chi cerca nella terra chi nei voli
il nome il segno il modo di parlare
 
se appartiene al silenzio allo sguardo
al fruscio dei salici in ritardo
sull’autunno narrare il volere
di te di noi in queste lunghe sere:
 
chiamarti è la deriva degli intenti
se non so dirti il poco né l’intero
(le parole confessano indigenti
la poca confidenza con il vero)
 
 
 
 
Avrò tempo per darti l’amore
avrò tempo per quando il sudore
deterso al vento che rinfresca e salda
mi terrà nella tua morsa calda
che non si intende di costituzioni.
Avrò tempo per dirti l’inganno
del corpo e delle sensazioni:
vedrai che al fondo le cose hanno
l’umida natura di prigioni.
 
 
 
 
Amici morti per il fuoco
se l’acqua è l’inizio
ora interrogate il dopo
conoscete lo scopo
del pensare.
La cenere ha confuso il mare
deluso il cielo.
Il nostro era un viaggio terreno
e questa è terra di ulivi
di tramonto
terra di sale
da Elea a Metaponto.
 
 
 
 
poi prenderai la coperta d’inverno
la gatta ruberà il raggio di sole
coltivando dubbi su cosa sia saggio
e tornerai nel regno di parole
a dire “non è per niente questo
non è per niente questo che volevo dire”
 
 
 
 
il tuo leggero gemito in amore
le labbra appena aperte nel sorriso
avari fiori, come l’elicriso
 
 
 
 
avremo aurore rosa corallo
nel giardino di cedri e d’assenzio
suoni inauditi nel silenzio
avide notti cariche d’antico
coppe di legno colme di vin santo
e accanto il miele delle bocche
schiuse: cose da niente i baci
 
 
 
 
non possiamo Nietta che spremere
poco succo dai limoni rari
(quante le gemme bruciate dal freddo)
meglio sentieri antichi poco battuti
strade deserte polverosi cardi
(il pensiero arriva sempre tardi)
 
 
 
 
sfuma la luce Sergio troppo presto
così breve è l’estate novembrina:
accendi il fuoco con rami di pino
un velo di miele aggiungi nel vino
e chiodi di garofano e cannella
 
 
 
 
ti passa a volte accanto, ti sfiora
una ragazza col suo odore intenso
la brezza adolescente ti divora
brucia in un niente la ragione il senso
 
 
 
 
le parole non trovano la strada
per dire quest’esilio, lontananza
dalla luce che subito digrada
come evolve il suono in dissonanza