Col burroso candore delle sue morbide mani – Jan Wagner

© ZKM | Center for Art and Media, photo: Fidelis Fuchs

 
 
Anna
 
sapevamo tutto della sua tacca
ma non di amici o mariti
nulla delle lettere sotto le sue mani
profumate di giglio e coperte di leggera
scrittura, fino a che, chiusa la busta,
non incollava la testa di un presidente
 
in un angolo. una cosa solamente
ci interessava, eccome: la sua tacca,
la bocca-cratere, la sottile pista
di lava fino al naso; intrigati
dall’idea che di notte l’umana figura
sparisse e lei rimpicciolisse, e dalle mani
 
crescessero due zampe e lei, con i
fianchi coperti di pelo, tremante
per il freddo, saltellasse giù per
la strada, attraverso il portone, in cerca
di radici, per macinarle coi suoi denti
da coniglio, mentre come affilata falce si desta-
 
va la luna o migrava per le case senza sosta.
cercavamo terra nelle sue mani,
macchie d’erba, dei marchi qualsiasi, interessati
a quanto si lasciava esclusivamente
supporre, però nulla – solo quella tacca
dalle labbra non voleva sparire.
 
anna in cortile, con un lenzuolo da mettere
a mollo, che dalla corda blu del bucato presto
pende come falena. anna, attaccata
a scartoffie, romanzetti nelle mani,
o vestita di osso, con treccia e cuffia fin sulla fronte,
e come più volte accaduto in passato
 
in procinto di mettersi il rossetto
prima di sparire con la valigia tra i binari
e deviatoi verso la stazione. che pesante
il tempo che non voleva passare più tosto –
finchè di lunedì tornava a casa, come da mani
trasportata, cantando con voce nasale dalla sua tacca,
 
e a tritare il caffè ci radunava accanto
spalmando il pane, dopo averci accarezzato la testa,
col burroso candore delle sue morbide mani.
 
 
 
 
 
 
Satirione
 
a volte la sera ne torna il puzzo
in un giardino, nell’angolo di una qualche
stazione – un serbatoio del gas guasto,
qualcosa di morto, giù nello scantinato di una siepe –,
 
come allora in settembre, quando il bianco
cappello ondeggiava tra gli arbusti nel bosco,
le ragazzine ridacchiavano e noi con
visi accaldati, in questo
 
momento bambini ancora, ma non più tanto bambini,
sghignazzando e sbraitando, correvamo
verso casa, verso un futuro ignoto, nascite, matrimoni,
 
mentre la figura si rintanava nel suo clima,
vecchio, sudicio, pover’uomo
col vento in testa e un malconcio mantello di fogliame.
 
 
 
 
 
 
autoritratto con sciame d’api
 
fino a un istante fa, solo una linea,
intorno a mento e labbra, ora una barba intera,
che cresce e brulica, fino a farmi sembrare una
maddalena penitente, fino ad essere
 
tutto irsuto d’api. e come da ogni direzione
si avventano, a guisa di un turbine, come lento
si accresce, grammo per grammo, in estensione
e peso, il centro immobile del canto…
 
con le braccia distese rassomiglio
a un cavaliere, cui gli scudieri infilano
l’armatura, pezzo per pezzo, prima l’elmo
poi la corazza, braccia, gambe, collottola,
 
fino a quasi non potersi più muovere, non cammina
sta solo lì in piedi, luccicante, e dietro lo splendore
un po’ d’aria stantia, un venticello appena,
e realmente visibile solo nel suo svanire.
 
Da Variazioni sul barile dell’acqua piovana, Jan Wagner (Einaudi, 2019, traduzione di Federico Italiano)
 
 

Ho letto Wagner spinto dal suggerimento di un amico e, devo ammettere, ne sono rimasto sorpreso. Innanzitutto dichiaro subito la presente non una nota critica né di lettura, da come comunque si intuisce dal tono eccessivamente colloquiale dell’incipit. Raccolgo solo qualche impressione a fronte del fatto che non ritengo di avere gli strumenti adatti per leggere Wagner.

La lettura è solo apparentemente una questione semplice. Leggere è facile come vedere, ma per guardare serve attenzione, competenza, consapevolezza. Di fronte a Wagner mi rendo conto di restare affascinato, molto, dall’equilibrio di un verso che, tra l’altro, nell’edito Einaudi viene molto ben ricalibrato dal traduttore Federico Italiano.

Mi resta però un’incapacità (mia?) di capire il testo nel suo profondo. A fronte di un verso armonico appaiono immagini contrastanti, salti logici a volte spiazzanti, anche per chi ne è abituato.

Cosa sto leggendo? Mi sono chiesto più di una volta. Mi piace, ma cosa sto leggendo?

Quadri, fotografie di animali e uomini (in questa breve scelta ho privilegiato la figura umana) che nei colori e negli atteggiamenti chiaramente dicono altro. Ma cosa?

Cosa fa Anna? E perché lo fa? Quel barbone visto da bambini ancora, ma non più tanto bambini che metafora porta? O non porta? E quando l’autore si mette di fronte allo specchio e si comprende realmente visibile solo nel suo svanire, cosa sta effettivamente guardando o comprendendo?

L’impressione ultima è che il focus non sia Anna, il barbone, la barba dell’autore o quel che lui vede allo specchio, ma la relazione (contraddittoria) che si viene a creare e che, in virtù della propria esistenza, definisce gli opposti.

Non capisco la poesia di Wagner, ma mi piace. Provo tenerezza, e credo sia una cosa condivisa, per Anna così come provo squallore, senso della distanza, dell’alienazione, di fronte al barbone. Mi piace non capire questa poesia nel momento in cui mi viene il dubbio sia una continua metafora della realtà. Del non capire la nostra realtà pur essendoci dentro.

Perché quando vediamo le cose tutto appare semplice, rassicurante in una qualche misura, ma quando guardiamo si perdono i punti di riferimento e le crepe, le fratture, emergono a scandalizzarci.

Ci dicono che non comprendiamo il mondo in cui viviamo. Forse come questa poesia.

Alessandro Canzian