Ci sono un futuro incastrato sulla soglia, una musica da suonare su un pianoforte dalla tastiera smisurata, movimenti troppo sgraziati per diventare una danza, ci sono molte cose da dire ma manca la voce, ed è qui che la poesia di Silvia Giacomini arriva a colmare l’assenza verbale.
Mentre sopravvive come meglio riesce in una “cittadinanza d’altrove”, nella quale si sente straniero sin dalla nascita, l’io poetico non può che scrivere dai confini dell’identità e del linguaggio. Si presenta non per quello che è, ma per quello che non è, lascia che i propri tratti negati o incompiuti approssimino la sua descrizione: non è donna, non è un infante, non è un cigno elegante.
Ne emerge un’identità che è assieme un’alterità, incarnata e messa in scena. Ogni testo è un atto di esposizione, un gesto di vulnerabilità radicale. Il verso poetico presenta al mondo un corpo che non si adatta, si sente rinchiuso in una gabbia stretta fino al collo, come descritto sin dall’incipit del libro, che si apre con l’indicazione di una scenografia teatrale:
Al centro, la gabbia in cui venivano rinchiusi i folli: un antico strumento di tortura.
Una gabbia in vimini rinchiude il paziente – che ha le mani legate – fino all’altezza del collo, lasciando libera soltanto la testa.)
Si vuole preparare il lettore/pubblico all’ascolto del monologo di un paziente psichiatrico, i cui corpo e anima sono costretti in recinti fisici e sociali. Si può quindi immaginare l’intera opera come divisa in tre atti teatrali, ciascuno diviso in due parti.
Nella seconda parte “Divergenti luci” del primo atto “Il pianoforte anomalo”, scopriamo che trattasi di “Voci di persone; autistiche, PAS (altamente sensibili), variamente difformi.”
L’autrice porta dentro di sé lo spirito di queste persone, e anche degli animali, si prende la responsabilità di esprimere la sofferenza e l’incommensurabilità delle loro anime che anelano espansione, metamorfosi e volo, ma che al contempo non riescono ad oltrepassare la barricata della paura. Il dolore non è più solo individuale, ma diventa il dolore dei “malnati”, costretti a convivere con chi si conforma o segue uno standard, in mezzo ad un’umanità nella quale i discorsi comuni, il contatto fisico, la burocrazia, la rottura della routine diventano minacce quotidiane che prima escoriano la pelle, poi la feriscono, la trapassano, e frantumano le ossa.
Capitàno di crolli.
Reggo, reggo e mi sorprendo di come sto saldo
fasciato di burrasca, tra gli schianti
poi, quando gli altri sono a riva, in salvo,
nella normalità di nessun vento
comincio a perdere parti di me. Una mano,
un pensiero, una parola,
e dopo la lingua, gli occhi, la testa, il cuore.
Tutto di me si disfa
restano ossa di sabbia e la memoria vuota
di una fionda
l’urlo alato del mare che si spezza.
La poesia di Silvia Giacomini, pur curatissima e limata nel lessico, è ugualmente una ribellione. Non per scelta, ma per necessità. Chi è fuori luogo, fuori tempo, fuori norma, se trova il coraggio e di esprimersi, non può che suonare dissonante e, per questo, originale. Sono originali le sue iperboli, che in poche righe possono essere prima sconfinate, poi infinitesimali, con cui l’autrice trasferisce il sentire di un modo di vivere altrimenti inintelligibile ai neurotipici:
[…]
con l’incavata sete
di ogni fibra di me
continuo impercettibilmente a crescere
in direzione dell’irraggiungibile.
Perdonatemi se sono tutt’uno
con questo minimo boccone datomi di terra
[…]
Se i versi del primo atto inarcano la schiena per prendere aria da un cosmo infinito, nel secondo atto fanno una capovolta all’indietro e rovesciano la prospettiva sugli esseri umani. Il lutto è l’esperienza discriminante fra chi mantiene la propria integrità mentale e chi si racconta menzogne palliative. La massa compone il secondo gruppo. I difformi sono fedeli ai tratti che ci rendono più umani.
Dinnanzi alla morte, e ancor peggio alle morti, viste come una “catena di mutilazioni”, la poetessa annuncia: “Si impazzirebbe, se non fossimo già tutti impazziti” e “a essere lucidi / bisognerebbe piangere ogni giorno”.
Riconoscersi inconsolabili, concedersi al pianto – anche quotidiano e prolungato negli anni – è sintomo che ci stiamo ricordando delle persone amate che ci sono state accanto, è tributare loro un’incessante riconoscenza per aver lasciato un segno nella nostra vita. Peggiore del lutto, è solo la perdita del ricordo degli estinti: dimenticare il vissuto di una sola persona è un “delitto o malattia”, una perdita di conoscenza per l’intera umanità.
I testi di “Cittadinanza d’altrove” restituiscono istanti, ore e giorni trascorsi con le persone estinte, tra queste si distinguono su tutte l’anima gemella e la madre. Nei loro confronti, il desiderio più ardito è restituire all’umanità anche quella parte di vita di cui l’osservatrice non è stata testimone, come l’infanzia della madre. La poesia è un tentativo disperato e luminoso di trattenere tempo, voci, rumori, gesti e immagini, e questa raccolta meriterebbe di essere conservata in quel fantastico archivio interstellare dove l’autrice sogna di salvare tutte le memorie di tutte le vite, affinché nessuna vada sprecata, ma si realizzi continuità di conoscenza e di amore tra le persone attraverso le generazioni, per un tempo infinito.
In mancanza di questa biblioteca, può diventare interstellare anche lo spazio interiore di chi ambisce a custodire la memoria, il che richiede – più ancora che sforzo mnemonico – un corpo disposto al sacrificio di congelarsi e trasfigurarsi in correlativi oggettivi che si fanno contenitori di istanti:
[…]
Ho così paura di dimenticare –
dimenticare è perdere tutto,
irrimediabile non essere –
che vorrei subito chiudere
il baule dell’aria
con la definitiva chiave
farmi colonna di sale, tronco secco,
roccia che trattiene
il calore di tutti i soli spenti.
Nel terzo atto Morte del tempo la morte non è solamente osservata da chi resta, ma è affrontata in prima persona, serenamente e nella sua ineluttabilità. L’autrice ne approfitta per affidare alla poesia un volere legato alla sua dipartita: “Qualcuno ricordi: le mie ceneri nel mare.”
Da questa prospettiva, il disfacimento non è orrorifico, ma è accogliente. Quanto c’è oltre il cancello promette lievità dopo una vita che non ha concesso cittadinanza.
Elisa Malvoni
Io non sono una donna,
non pensarmi tale.
Io non sono una donna,
sono una scomposta frattura di infinito.
Il sesso biologico è uno strappo buio nella carne.
Potrebbe essere l’ingresso dell’inferno
o una ferita da suturare.
Non mi appartiene, non mi riguarda.
Non amarmi come fossi una donna.
Amami come ameresti un corpo d’acqua
un cervo di vetro soffiato
amami come una stella morta
nel suo fertile vestito di polvere,
come un recinto di fiamme. Non toccarmi,
lascia che sia io a versare
sul tuo corpo la vertigine
del cielo illune.
Come faremo ad abbracciarci senza corpo?
È un pensiero che annienta.
Urla da spaccare i vetri il vostro silenzio
nella solitudine che si dilata.
Ho il terrore di non rivedervi.
L’angoscia è una gabbia dentro una gabbia
all’infinito.
Stasera non è la mia stanchezza demente
a tormentarmi
è il terrore che l’universo sia cieco,
che nessuno abbia cura di chi nasce, di chi perde.
Che nessuno, niente
custodisca il nostro essere nel suo amore,
nel suo amore il nostro amore,
il solco dei minimi gesti, il sentire che sfiora
immani trame nel fondo, lo schianto
dei riverberi, lo strappo delle quinte con tutte
le crocifissioni che è costato.
Mia estasi, fruttifica nel vento,
la primavera in febbraio
è un bacio sommerso,
un’acqua incendiata.
Abbacinante morte del tempo
saperla dire non basterebbe a possederla
a ricrearla
nei giorni di secca opacità.
Tocco la chiave e non vedo la porta.
Non si può entrare nella sorgente,
solo galleggiare tra i riflessi.
Sono così vasta
ora dissolta, ora non io.
