Non dette non esistono le cose
o esistono di meno
restano inoffensive ad aspettare
sgretolate dal dubbio che le erode
mezze realtà di incerto statuto
di malavoglia ogni tanto visitate
temendo che una notte bruscamente
come il cane che balza dalla cuccia
afferrino alla gola
infine necessarie e nominate
Parla compitando la voce che s’affonda
senza accento di luogo
e si alloggia nel dialogo dei vivi
affidando a ogni suono l’eco bianca
di ciò che accadde e non fu memoria
toccherà sillabare lentamente
poi limare ogni spia di senso
sarà opera onesta di registrazione
della lingua sorgiva che rintocca
e a nulla serve blasfemare l’alba
che sfilaccia la frase
che l’inoltra
Circola tra oleandri mortali
nome senza aureola
colmo all’orlo
da cui il miele non travasa
né l’interno si sonda
ciò che resta dei miti
è avaro di eccedenza
e il discorso rappreso in superficie
con le sue frasi e il respiro corto
si allunga in lucida parete
e non riflette
è specchio senza foglia
(Anna Chiara Peduzzi, Figure semplici, Anterem Edizioni, 2021)
Indagano il rapporto tra nominazione e mondo nominato, questi testi di Anna Chiara Peduzzi, con un tono apparentemente distaccato e lucido che, sotterraneamente, vibra di un respiro tremendo, dove l’innominato abbranca rovinosamente dall’oltre chi riesce a intenderlo, rendendone la nominazione “infine necessaria”, per quanto difficoltosa e imperfetta.
Le cose non dette “non esistono … o esistono di meno”, permanendo in una parvenza di attesa inoffensiva, “mezze realtà di incerto statuto”: è dunque la persistenza del “dubbio che le erode” una necessità di ascolto e di silenzio dei fenomeni, in attesa che “una notte bruscamente … afferrino alla gola”, rivelando infine la necessità della loro nominazione. La vitalità delle cose del mondo, della loro ambigua segretezza, non pulsa dunque di artificio e mistificazione intellettiva, essendo in primo luogo avvicinata al “cane che balza”, che afferra alla gola.
La voce che vorrà appropriarsi delle cose per restituirle tramite la parola “s’affonda / senza accento di luogo … nel dialogo dei vivi”, caratterizzando ulteriormente il pensiero dell’io del testo, dove il radicamento al luogo e al tempo passa in secondo piano, mentre necessario diviene “ogni suono l’eco bianca / di ciò che accadde e non fu memoria” – in questo la scelta del termine voce piuttosto che parola è essenziale – al fine di “limare ogni spia di senso”, agendo per sottrazione dell’inessenziale affinché la lingua “sorgiva” possa rintoccare puntuale, mentre in controcanto il testo rammostra il mondo circostante, in una “alba / che sfilaccia la frase / che l’inoltra”; il rapporto tra fenomeni, potenza del mondo, e nominante che accoglie le cose, per tentarne una restituzione nel linguaggio, è dunque una relazione stretta e viscerale, che si risolve in distillata testimonianza.
Il “nome senza aureola”, di fatto meno sacro di ciò che nomina, o quanto meno il cui valore di sacertà è meno evidente, “circola tra oleandri mortali”, raffigurazione della maestà fatale del mondo naturale, la cui restituzione è tanto imperfetta quanto necessaria; lo squilibrio tra essenza delle cose e loro vitalità nel linguaggio persiste, in quanto la parola è nome “da cui il miele non travasa” e “ciò che resta dei miti / è avaro di eccedenza”: l’eccesso, soprattutto nella lingua e nella poesia, è dunque allontanamento deciso dalla realtà del mondo. In ogni caso “il discorso … con le sue frasi e il respiro corto … non riflette”, risolvendosi in ultima istanza in uno “specchio senza foglia” incapace di rappresentare con assoluta fedeltà, se non per approssimazione più o meno intensa, la vitalità e il mistero del mondo.
Mario Famularo