Ciò che resta è un accomodamento – Antonio Lillo


 
 
Dice: A breve uscirà il mio nuovo libro.
E tutte intorno: Bene, bene, anzi benissimo.
Le pecore da pascolo a belare
si scatenano all’annuncio del Pastore.
Spalancano le bocche in un bel verso pieno
sul nulla che gli frega del Suo libro.
Poi tornano sul prato a ruminare
nell’attesa che Lui glielo regali.
 
 
 
 
 
 
Chissà cosa pensava il mio vicino
quando se l’è presa con l’albero di fronte
per abbatterlo. Era sano. E dava ombra
al cane. Invece il vicino diceva
gli nascondeva la vista col fogliame.
È tutta qui la differenza credo.
Che qualcuno nella macchia vede
un muro e qualcun altro una finestra.
 
 
 
 
 
 
Mi manca certo la parola esatta.
Io l’ho dimenticata. Ogni parola
meglio coincide con la più esatta
giovinezza e quando passa
ciò che resta è un accomodamento
fra necessità e sogno di chiudere
il discorso prima che sia tardi.
Dopo, o te la scordi o va in malora.
 
 
Mal di maggio, Antonio Lillo (Samuele Editore, 2022, collana Scilla, prefazione di Francesco Tomada)
 
 

Di fronte alla scrittura del poeta-editore pugliese Antonio Lillo, che fa risaltare un verso spurio, una forma per nulla incline al fraseggiare ritmato bensì maggiormente aderente al narrare in prosa, ciò che colpisce innanzitutto l’osservatore esterno è la sensazione di essere fuori posto, soverchiamente messo alla berlina, fustigato si direbbe. Si finisce, se la sincerità non ci fa velo, per essere additati quali ingranaggi di un meccanismo, leggasi società attuale, che ingurgita e vomita costantemente ipocrisie come una betoniera, per rubare un’espressione ormai divenuta icastica del padre del Realismo Terminale, Guido Oldani. Lillo ci respinge addosso con una velata, sferzante ironia di fondo il conformismo, l’indifferenza, la mancanza di correttezza, il paludato incedere nella quotidianità, senza remore, senza artifizi, senza soprattutto compromessi, come un redivivo Flaiano. L’ipocrisia che il mondo intellettuale abita talvolta è il contrassegno, la cifra predominante della prima poesia in cui l’autore coglie una similitudine tra le pecore belanti e lo stuolo di fan adoranti in cerca del libro (gratis, beninteso) di un ipotetico scrittore (raffigurato come un novello Pastore che guida il gregge), uno dei tanti spuntati a riempire forse inopinatamente librerie e biblioteche. La parola si fa leggera e densa al tempo stesso, punta dritta all’obiettivo denudandosi di orpelli inutili. Stronca, irride, corrode false virtù e buonismi imperanti, ma altrettanto si ammanta di un ecologismo che viene strumentalmente utilizzato per fornire un punto di osservazione arguto (è il caso della seconda composizione poetica): qui rinveniamo una sagace capacità di cogliere ciò che l’occhio e il cervello umano, abituati vieppiù a sdimenticare, non riescono più a praticare, con ciò intendendo il rapporto con l’ambiente, la natura e gli animali. Si torna invece nei territori più psicologici nella terza composizione: anche qui, come nella prima, si ricorre a un interessante collegamento, segnatamente tra il ruolo della parola e l’età/stagione della vita. Il tempo corrompe la precisione, erode l’esattezza (un riflesso calviniano in ciò?), subisce un degradamento naturale come la stessa esistenza umana che perde di smalto, cristallizzando impurità. Così Lillo ci pone di fronte a un bivio per il quale tertium non datur: trovare una forma mentis che possa ‘gestire’ il percorso terreno o lasciarsi abbandonare alla deriva materiale che ciò comporta? Per assaporare la poesia del poeta-editore è in ogni caso necessario svestirsi dalle forme consuete di ricezione poetica per farsi irretire da un debordante, sfolgorante gioco di sensi che egli magistrale crea e domina.

Federico Migliorati