Fedele al suo microcosmo di quartiere, nei confini di una città storicamente e geograficamente determinata, la sua Parma (la Parma di una grande tradizione poetica a cui l’autore nemmeno troppo velatamente si ricongiunge), Beghè Chicane (Avagliano Editore, 2024) riesce a offrirci uno sguardo sulla contemporaneità ampio, capace di comprendere molteplici sfaccettature del reale, a dimostrazione del fatto di come il particolare, inteso come vissuto del qui-ed-ora, sia lo strumento più efficace per rappresentare il macrocosmo, l’universale, ciò che abbraccia tutti i confini e ci restituisce una visione più completa del mondo.
La sua poesia si caratterizza per la consapevolezza etica della scrittura – “un varco nel muro del sistema” – funzione che si esplicita attraverso l’esposizione nuda del fatto, senza bisogno di sovrastrutture, riflessioni a latere; i fatti, riprodotti con un realismo asciutto che fa ampio uso dei termini tecnici o specialistici di volta in volta necessari al contesto, si mostrano in sé, assumono quella funzione paradigmatica che comporta per il lettore il coinvolgimento intellettivo ed emotivo con la materia trattata, lo obbligano a una presa di posizione, gli impediscono di essere osservatore distaccato della realtà, ma ne fanno parte in causa. Tale procedimento stilistico e linguistico, al di là della modalità che la poesia assume di volta in volta – sia essa in versi o in forma di brevi racconti aneddotici, quasi nugae che si trasformano in nuclei carichi di senso, grazie alle sottili allusioni – porta spontaneamente alla trasfigurazione della realtà in simbolo, secondo una modalità di scrittura che è prevalentemente allegorica, figura preferita da Beghè rispetto alla metafora, che – alterando per sostituzione, per traslato l’oggetto della rappresentazione – renderebbe il linguaggio falsato, sabotato: qui serve invece che l’oggetto rimanga pieno del senso che il contesto richiede, si materializzi nei suoi particolari rappresentativi e scabri, ponendosi naturalmente come emblema di un mondo che riassume, che sintetizza nella sua essenza. Si pensi alla splendida immagine della “panchina” che da “corpo di legno / e metallo” assurge spontaneamente a “bestia calma, / un’abitudine a bordo strada, / se l’accarezzi sul dorso fa le fusa, / fraterna ti accompagna alla svolta”: metamorfosi che si sviluppa spontaneamente, senza forzature analogiche, per costituzione data dell’oggetto, per la sua valenza intrinsecamente simbolica. Procedimento, questo, più volte iterato e variato all’interno del libro.
Tutto l’impoetico appare con insistenza nei testi di Beghè – spaccato di una vita cittadina o suburbana di trito grigiore quotidiano, di vuoto dovere impiegatizio che ricorda Giudici; o di una campagna, autentica ma antiquata, nella sua “strana / solitudine periurbana”, che mantiene i connotati di una resistenza alla “omologazione” – impoetico che si spiega in tutto il suo ampio catalogo linguistico, senza cedere mai alla caduta in una tentazione estetica di abbellimento, perché non serve alla poesia “trasformare la vita / in polvere da mettere sotto il tappeto”, anzi non è possibile “attraversare indenne la ferita, / se quella ferita è ovunque.”. Naturalmente, la chiave perché tutta l’impostazione di questa poesia risulti credibile consiste in un conseguente dissenso rispetto ai luoghi comuni della contemporaneità che ci offre il modello di un mondo tecnologizzato, massificato, giustificato dall’applicazione asettica (e quindi spietata) del principio di utilità che accetta passivamente tutti i suoi effetti collaterali: degrado, sfruttamento e ingiustizia. Il simbolo della “chicane” – che, oltre a dare il titolo alla raccolta, compare a più riprese in diverse poesie – contrapposto al “rettifilo”, in cui si può accelerare senza misura, senza coscienza, fino all’inevitabile schianto, la “chicane” – dicevamo – si pone come imperativo categorico alla riscoperta di una relazione più equilibrata con il mondo, di un percorso più ragionevole e sensato, obbligando a rallentare per le sue “esse in serie, curve / strette di raggio, in contro direzione”; “chicane” che è anche strumento per “capire che siamo qui per caso, / per un numero imprecisato di errori, / giunti per una strada di bivi / e di chicane, che nulla ci è dovuto.”, perché l’uomo, come un “frost cocktail” alla vetta del processo evolutivo che sussume in sé tutti gli altri stadi animali, ha in sé tutte le contraddizioni delle “copie” e delle “repliche” che non danno per assodato il perfezionamento, anzi moltiplicano l’errore; “chicane” che riappare anche nella forma verbale spezzata (soltanto un lapsus? o piuttosto scelta deliberata di un poeta arguto e sottile? come si tenderebbe più realisticamente a ritenere), quasi gioco enigmistico, nel titolo della poesia “Chi? Cane alla catena”, per aggiungere ulteriori “anelli al rigiro dei cammini”, come si dice nel testo. Sono tutti aspetti questi che confermano la presenza di una struttura molto solida che è la spina dorsale di questo libro, così ricco di continui rimandi intertestuali da renderlo un organismo unico, pulsante, che deve il suo fascino al suo carattere scontroso, irriverente, a tratti sardonico e grottesco.
Beghè crede – questo riteniamo di dedurre dalla sua poesia – nella figura di un poeta testimone del proprio tempo, elemento di disturbo per l’ingranaggio oliato di un mondo che sente di dover contestare, spingere alla auto-critica e alla revisione profonda della sua impostazione, senza però assumere mai l’atteggiamento da predicatore o maître à penser, anzi ribadendo più volte il ruolo marginale del poeta, titolo quest’ultimo al quale si può soltanto aspirare per tentativi successivi grazie all’impegno nella scrittura (“come preghi e speri sia poesia / ciò che scrivi.”); un poeta, dunque, che osserva, espone con piglio documentaristico, senza giudicare esplicitamente se non lasciando che sia la vita a descriversi “senza profitto, né disperazione”; un poeta che non vuole etichette e distintivi, per cui “crepuscolare”, come afferma in un altro bel testo, da “figlio di un elettricista”, non può significare altro che “l’apparecchio” che permette di fare luce quando scende la notte, il buio: non serve proprio a questo la poesia?
Fabrizio Bregoli
La banalità del traffico
La logistica sembra una forma spicciola
di logica, una banalità
che torna nel rigiro dei corrieri,
nel trasporto intermodale che ci avvolge.
Una piattaforma, un transit point,
un camion che arriva in una baia
di cemento armato,
che attende un muletto
per lo sbarco, in una Normandia
che non salva alcun soldato.
Il codice a barre, la falsa contabilità
delle emissioni,
il picking vocale, l’etichetta che manda
segnali, la lettera di vettura,
il sincronismo efferato degli europallets.
La norma tutto prevede e tutto permette
alla cooperativa
del polo logistico integrato
nel paesaggio padano,
con sede, legale, in Romania.
Si occultano dietro acronimi
i gestori di questa vita agra,
del traffico che mai si ferma,
del lavoro che non rende liberi.
Bestia calma
Lo stomaco dell’autobus mi proietta
nel cielo rosso oltre il distributore
in stato d’abbandono, nel piombo
sottratto ai passi del ritorno,
quando la tabella arrugginita
dei gelati appesa al muro chiama
casa, il controviale è quasi un tavolo
di pace, che si rinnova ogni sera.
Tra i cestini stracolmi e le radici
che spaccano il manto cementata
al terreno la panchina, corpo di legno
e metallo, è una bestia calma,
un’abitudine a bordo strada,
se l’accarezzi sul dorso fa le fusa,
fraterna ti accompagna alla svolta,
una decina di metri più avanti.
Terra di mezzo
Nascosta dalla cortina dei sempreverdi,
progettata con la cura
delle aerostazioni, è un contenitore
di vecchi e di operatori di volo,
appositamente formati, la casa di riposo.
I vialetti del parco, che conducono all’hangar
della camera mortuaria, illuminati
da alti lampioni, sono piste di decollo.
Quando passa in staffetta con la nipote
davanti a quell’orgoglio
dell’amministrazione, diretta alla cattedrale
neogotica del centro commerciale, nonna Carla
guarda dal finestrino. Fa le corna.