Soldati
Un soldato arabo ha
sparato. Sua madre era il deserto
o il disertore che ci si era
perso. Suo padre era il pallore ogni notte
diverso delle lune tenui di crepuscolo. Vegliava
cangiante e sconosciuto sui suoi
passi lungo i muri bassi dell’esistenza
araba
un soldato pallido ha
sparato. Ibn
sharmuta ha detto l’altro cadendo e lui
non ha fiatato. Ha risparato al morto
per essere sicuro e ha camminato zitto
lungo un muro
un soldato cieco ha
sparato. Era moro, era biondo,
era il secondino o il carcerato,
era il diseredato del deserto senza
strade dov’è morto
il disertore. Ibn
sharmuta ha detto
l’altro cadendo o era lui
stesso specchiato dal pantano
che si sparava in testa e poi
cadeva
specchio di fango, occhio
della terra per incrociare lo sguardo
di chi cade e dirgli siamo
da qualche parte nel deserto
che ogni giorno è solo, è cieco
e spara
Un giorno di guerra
Sei il morto nell’acquitrino, sei la strada
su cui si bucano le ruote, nella sera
sei il corpo che fa un rumore
di preghiera, sei nessuno
per nessuno e senti il mondo diventare
nero. Dentro
c’è l’alba, un cane che ha perso
sangue e si gonfia dentro al fango e ancora
non si vede e anche lei
è nessuno. Il tronco
ficcato dentro l’acqua era ferito
da nomi incisi che nessuno
legge e un tronco basta
per un quartiere intero. L’uomo
che fumava vendendo sigarette e la finestra
che aveva gli occhi della vecchia cieca e la ragazza
ferma ad aspettare e il figlio
che era già nato prima di saperlo
e l’uccello che volava
sottoterra e la fine incisa
nella storia come una ferita
del suo inizio. Il giorno è un cane
che non vuole
svegliarsi
Camion dell’alba
Sei e quarantacinque. Prima
del buongiorno, quando nessuno ha
ancora augurato niente a nessuno, nella
verità del cemento non truccato
della tangenziale, l’hai visto correre
nudo contro i camion
era pazzo, fatto di fentanyl,
drogato, non capiva il senso
del buongiorno, era
condannato
oppure era ognuno
addormentato
svegliato e sparato nudo
dal mattino
contro il suo piccolo
destino
da Un giorno di guerra, Sonia Gentili (Aragno Editore, 2024)
Quando si parla di guerra si parla, purtroppo, sempre di due elementi archetipici e fondanti: il potere e la carne. Il potere di chi gestisce da lontano (e dal sicuro) le azioni, e la carne di chi gestisce e subisce da vicino le azioni.
È indiscutibile infatti che guerra sia sostanzialmente eliminazione della matericità altrui. Sia essa l’abitazione, la città, il corpo. Al netto delle terminologie di questi giorni che indicano guerra dei dazi e guerra commerciale (che comunque riportano alla mente un innalzamento dei costi e una conseguenza sul potere d’acquisto del singolo, quindi un precipitare del problema sui corpi degli individui attraverso, ad esempio, il minor potere d’acquisto degli alimenti, elemendo che ad ogni crisi è preso d’assalto per primo nei supermercati) è necessario colpire la carne quotidiana dell’altro per soddisfare l’ideale strategico che sta a monte. Sonia Gentili individua questa carne quotidiana sia nel cemento ( nella / verità del cemento non truccato / della tangenziale) sia nell’individualità che perde i propri confini tra io e altro sfibrandone il soggetto e, in qualche modo, soggettivando l’azione (Ibn / sharmuta ha detto / l’altro cadendo o era lui / stesso specchiato dal pantano / che si sparava in testa e poi / cadeva).
È la guerra il protagonista del tessuto dell’esistenza, questo pare dire Gentili. Sia nei territori di battaglia sia laddove apparentemente vige la pace. Apparentemente, perchè guerra è composizione e forma della vita, purtroppo. Dove vittime sono tutti e la forma (dei corpi e del linguaggio) è l’espressione franta della solitudine della realtà (a differenza, ad esempio, dello straordinario Afghana in limina missus – la guerra di Ivàn dello pseudonimo Moammed Sceab – Il Melangolo 2016 – dove la tragedia viene emblematizzata e cristallizzata dallo chador in una consequenzialità di esametri latini). Il verso di Gentili infatti muta continuamente velocità e lunghezza passando dalla descrizione densa di assonanze e allitterazioni ([…] sparato. Era moro, era biondo, / era il secondino o il carcerato, / era il diseredato del deserto senza / strade dov’è morto / il disertore) alla visionarietà dell’immagine evocata (Dentro / c’è l’alba, un cane che ha perso / sangue e si gonfia dentro al fango e ancora / non si vede e anche lei / è nessuno) alla lapidarietà quasi apodittica senza possibilità d’appello nè speranza (che si sparava in testa e poi / cadeva).
Ogni giorno è solo, è cieco / e spara, oppure Il giorno è un cane / che non vuole / svegliarsi (quello stesso cane, forse, che era amico dell’uomo?), oppure era ognuno / addormentato / svegliato e sparato nudo / dal mattino / contro il suo piccolo / destino. Non ha più importanza dove, l’incontro aporetico degli opposti e dei contrasti, il parmenideo essere e non essere che non dovrebbero essere conciliabili, Gentili li indica come terribilmente compresenti (e l’uccello che volava / sottoterra e la fine incisa / nella storia come una ferita / del suo inizio) e ormai altrettando terribilmente connaturati nell’essere umano (era pazzo, fatto di fentanyl, / drogato, non capiva il senso / del buongiorno, era / condannato).
È un destino artificiale diventato natura che crea, paradossalmente, un’identità della carne, della forma, degli uomini: da qualche parte nel deserto / che ogni giorno è solo, è cieco / e spara, versi che in altro testo diventano: svegliato e sparato nudo / dal mattino / contro il suo piccolo / destino.
Alessandro Canzian