Quando era ancora un giovane magistrato in carriera, impegnato in un incarico nell’area sud-orientale della Spagna, Giulio Cesare fu molto turbato da un sogno nel quale gli sembrava di unirsi alla propria madre. Al risveglio decise allora di rivolgersi agli interpreti, i quali gli spiegarono che la madre rappresenta l’equivalente della terra, madre di tutti i viventi, e che dunque il sogno gli prennunciava nulla di meno del dominio sul mondo. Detto fatto, Cesare brigò per ottenere un congedo anticipato dal suo incarico e rientrare a Roma, dove si tessevano i grandi giochi della politica, e lì porre le premesse per la sua formidabile ascesa.
Questa vicenda ci rimanda a un mondo nel quale i sogni vengono presi molto sul serio, al punto da affidarne la lettura a una categoria specializzata di professionisti ogni volta che i loro contenuti sembrano andare oltre il banale riflesso della spicciola esperienza quotidiana. È molto interessante anche il fatto che i Romani definissero questi esperti coniectores: il termine deriva infatti da un verbo, conicere, che significa letteralmente “mettere insieme” e suggerisce dunque il modo in cui lavoravano gli interpreti del sogno. Si trattava di “mettere insieme” un certo insieme di contenuti onirici con un certo insieme di significati, operando gli opportuni abbinamenti tra gli uni e gli altri e traducendo così nelle forme della normale comunicazione umana quello che l’esperienza del sogno aveva espresso invece attraverso il suo linguaggio specifico, fatto di immagini, figure, situazioni. I coniectores sono dunque i depositari di una chiave, i possessori di un codice in grado di aprire la cassaforte del sogno e di portare alla luce i segreti che si celano in forma criptata dietro i suoi contenuti in apparenza bizzarri o perturbanti. Come avviene appunto nel caso di Cesare.
Inutile dire che le cose sarebbero state ben diverse se invece che agli interpreti al suo seguito il futuro dittatore avesse potuto raccontare la propria esperienza al dottor Freud: questi gli avrebbe risposto senza dubbio che il sogno di unirsi alla propria madre esprime una pulsione profonda che domina i primi anni di vita di ogni bambino, quando la madre diventa l’oggetto esclusivo del desiderio sessuale e il padre è avvertito come un pericoloso rivale da cancellare nella competizione per assicurarsene le attenzioni. Un costrutto psicanalitico che Freud chiamò in prosieguo di tempo, come si sa, complesso di Edipo e che a suo giudizio trovava in quel mito antico – che Cesare conosceva perfettamente – una delle sue prime manifestazioni, come se i Greci avessero già espresso in forma di racconto un’intuizione che la moderna scienza della psiche avrebbe poi spiegato nelle sue matrici reali.
Eppure, realtà in apparenza così lontane come quella dei coniectores di Cesare e del lettino del dottor Freud hanno tra loro un punto in comune di grande rilievo: entrambe presuppongono infatti che il sogno non sia un evento irrilevante, un episodio effimero e privo di legami con la vita diurna, ma al contrario un’esperienza di grandissima importanza, in grado di dare accesso a verità che resterebbero altrimenti precluse al normale stato di veglia. Secondo questa visione condivisa, il sogno è portatore di un messaggio esclusivo e prezioso e proprio per questo ha bisogno di un interprete che lo renda accessibile al suo destinatario. Semmai, a cambiare radicalmente è l’ambito cui quel messaggio si riferisce: il futuro nel caso degli indovini antichi, il passato perduto della propria infanzia, ricacciato nelle profondità dell’inconscio, per lo psicanalista moderno. A modificarsi nel tempo sono poi, com’è ovvio, i presupposti alla base dell’interpretazione: se l’immagine della terra come madre può avere un significato ancora per noi, l’idea che sognare un rapporto sessuale preannunci un futuro da dominatore può attecchire solo in una cultura in cui la donna è vista come un partner passivo da sottomettere, in senso reale e metaforico.
Cesare, in ogni caso, dovette ricordarsi di quell’episodio quando oltre vent’anni più tardi, all’inizio della campagna africana contro gli eserciti del suo rivale Pompeo, commise l’imperdonabile leggerezza di inciampare proprio al momento di mettere piede a terra. I suoi soldati furono sconvolti dal cattivo presagio, ma il condottiero non si scompose: mentre era ancora disteso al suolo allargò le braccia dicendo a voce alta «Ti tengo in pugno, Africa!». E vinse la guerra.