Hai poche
parole
sottomano,
eppure
dovrai fartele bastare
per tendere
il tuo arco
verso il bersaglio
oscuro.
E dovrà
essere il far centro
senza volontà.
(Rafael Cadenas, Lettera aperta – In risposta, trad. e cura di Laura Pugno, Einaudi, Torino, 2024).
Leggendo il “doppio” Rafael Cadenas pubblicato recentemente da Einaudi (e tradotto dallo spagnolo da Laura Pugno), Lettera aperta e In risposta, viene da pensare che, anche a dispetto di una versificazione rarefatta, sapienziale e rasente il silenzio come è quella dell’autore venezuelano, la possibilità del fallimento abita la poesia. Una ventina d’anni fa un altro poeta, stavolta siciliano, Angelo Scandurra, aveva intitolato un libro di poesie Il bersaglio e il silenzio (Passigli, 2003), anch’egli volendo comprovare che l’opera del poeta è tutta nella «tensione» tra origine e fine di ogni parola. La poesia, dunque, come pratica zen, ovvero un fare «senza volontà», depurato dalle intenzioni. Il riferimento è troppo esplicito per non richiamare un piccolo libretto di culto come Lo zen e il tiro con l’arco, pubblicato nella metà dello scorso secolo da un professore tedesco di filosofia in seguito a un soggiorno in Giappone. Così l’autore, Eugen Herrigel, riporta l’insegnamento del Maestro: «Lei vede che cosa vuol dire non poter restare senza intenzione nello stato di massima tensione. […] La via alla meta […] non si può misurare.»1
Abbiamo sentito tante volte ripetere che la poesia “vuole dire” qualcosa, quando invece non “vuole dire” proprio niente, non si propone una finalità diversa che non sia quella di un respiro che scandisce e agisce nella realtà. Per Cadenas occorre liberare la poesia da questo malinteso che si configura come un agone tra il soggetto e il suo desiderio di (onni)potenza. Lo svuotamento di sé – che nel greco di san Paolo è chiamato kenosis – è liberazione dall’ego, rinuncia al superfluo che depista, nonché via d’accesso a «un accordo» con la poesia: «Non ti forzerò più a dire quello che non vuoi / e tu non opporrai tanta resistenza ai miei desideri. / […] / Poesia / allontanami da te» (La pace, p. 99). La questione è cruciale e riguarda lo sguardo del poeta («La mattina luminosa / mi autorizza / allo sguardo», La mattina luminosa, p. 21), quindi un modo di Stare al mondo che è prima di tutto presenza («Cerco di essere / presente», p. 61), cioè relazione con l’alterità («Mi adatto a te, / senza smarrire / la via», Ibidem). Allontanarsi dalla poesia – qui intesa come mera espressione di vanagloria letteraria – per ritrovare il cammino nel mondo: è una lezione per questi tempi di identità ipertrofiche e ingigantite dai “servizi” delle tecnologie, di Narcisi riflessi nello specchio di un algoritmo. Quanti possono tendere l’arco (della poesia) e colpire il bersaglio di un Io iperconnesso?
Pietro Russo
Fonte immagine di copertina: HolaNews
1 Eugen Herrigel, Lo zen e il tiro con l’arco, trad. G. Bemporad, Adelphi, Milano, 2011, p. 70.