Bianco nel bianco prima del taglio svanire – Chandra Livia Candiani

Bianco nel bianco prima del taglio svanire - Chandra Livia Candiani

foto di Salvatore Mayyarro

 
 
Un morto con una risma di fogli in mano
invita il vecchio ciliegio del giardino
a muovere i primi passi
fuori dalle radici
a gettarsi in una nuova scrittura
senza rami
a sognare senza coprirsi di fiori
bianchi ma bianco nel bianco
prima del taglio
svanire.
 
 
 
 
 
 
Per noncuranza o per sfida
feriscono i viventi
nessuno porta alla mente
la delicata trama
che ci sospende all’attimo
nessuno s’inchina
al mortale universo
dell’altro.
 
 
 
 
 
 
Nasce da cedevole rinuncia
la voce vera
il rintocco di solo
ascolto che fa
del respiro vela,
nessuna bontà è pari
al prestarsi
non alati
al vento.
 
 
(Chandra Livia Candiani, Bevendo il tè con i morti, Interlinea, 2015)
 
 

Non solo agli uomini, ma a tutti i viventi, i morti dei testi di Chandra Livia Candiani hanno un messaggio da portare: un messaggio di abbandono, dissolvenza, pace che si consustanzia nella separazione da ogni vincolo del sé, in un accoglimento completo della dimensione altra. È indicativo nel primo testo, ad esempio, che “un morto” decida di rivolgersi proprio a un “vecchio ciliegio” – albero che nella tradizione simbolica orientale sta a rappresentare in particolar modo la provvisorietà, la fragilità delle cose terrene, e la forza di un’esistenza cosciente della propria impermanenza: ebbene, lo “invita … a muovere i primi passi / fuori dalle radici” che gli appartengono, “a gettarsi in una nuova scrittura / senza rami”, e dunque in un vivere estraneo agli attributi che contraddistinguono la sua forma individuale in quanto albero, “a sognare senza coprirsi di fiori / bianchi ma bianco nel bianco / prima del taglio / svanire”. L’allegoria estesa ad ogni forma dell’esistere, in particolare a quella umana, è potente, in particolare nel trasfigurare il sogno, collegandolo non già a un fiorire abbondante, ma a “diventare” il bianco di quei fiori, a “svanire” prima ancora che intervenga quel “taglio” che porrà fine alla sua vita.

Svanire che sembra essere più uno svuotarsi dei propri attributi tipizzanti per accogliere completamente la dimensione altra, una morte che è prima di tutto del sé, e di cui il “morto” del primo verso si fa portavoce. Interessante anche come il “taglio” dei versi finali richiami un’ulteriore caratteristica dell’estetica giapponese, ovvero il kire o kire-tsuzuki (taglio o taglio continuo, appunto), presente anche nelle forme di poesia haiku attraverso il kireji (sillaba tagliata).

Se i morti portano con sé tale messaggio pacificante, i viventi invece “feriscono”, “per noncuranza o per sfida” (e nella noncuranza vi è sostanzialmente l’attribuzione di una scarsità di cura), perché “nessuno porta alla mente / la delicata trama / che ci sospende all’attimo”, ciascuno preso dai propri moti individuali, “nessuno s’inchina” (con il necessario e reverenziale rispetto) “al mortale universo / dell’altro”. Qui “l’altro” assume significazione estesa, e non si riferisce esclusivamente agli altri esseri umani, ma anche ad ogni altro essere vivente, al mondo in ogni sua sfaccettatura, di cui il ciliegio del primo testo è solo uno dei numerosi esempi possibili: è l’esercizio di una cura accogliente verso ogni “altruità” ad escludere, “uccidendolo”, il dominio del sé, ad essere pacificante prospettiva di senso, a non “ferire”.

Ed è quella che la Candiani chiama “la voce vera” che “nasce da cedevole rinuncia”, appunto, un “rintocco di solo / ascolto” che rende il proprio respiro (proteso verso l’atro) “vela”, con un’attitudine positiva, ospitale, benevola: privilegiare il sé e gli interessi individuali ha in questo dettato una sottintesa connotazione negativa, perché senza “nessuna bontà” ci si trova “non alati / al vento” – radicati alla percezione sterile del sé, incapaci di comprendere, accogliere e curare il mondo, incapaci di diventare quel bianco, quel modo di sognare attraverso lo svanire che il morto del primo testo invita ad abbracciare.

Mario Famularo