Beppe Cavatorta

Beppe Cavatorta

 
 

È negli interstizi delle cose e degli stati d’animo che si rivela la realtà per Cavatorta. In quarta di copertina l’autore pubblicato da Samuele dà la chiave per entrare nella tessitura della raccolta: un lungo, lunghissimo poema articolato come se i frammenti fossero autonomi: “farsi nell’essenzialità di un gesto / minima cosa oltre il perimetro / delle cose oltre le cose oltre/ il pericolo latente del chiuso”.

Si dice anche di parola morgana, dell’invidia per una briciola di quotidiano pane, e dello slancio verso un domani che racchiude tutte le cose. È abbastanza ovvio che il linguaggio di Istantanee di un amor de lonh sia complesso e insieme semplice se si guarda alla biografia di Cavatorta.

È professore di italianistica presso la University of Arizona a Tucson. Ha scritto su molti altri poeti. Compresa un’antologia (in inglese) sui poeti tra XX e XXI secolo. È nato a Parma, dove si è laureato prima di trasferirsi negli Usa. Quindi, tra natura e storia, il suo scrivere si può permettere ardite evoluzioni, sempre fedeli alla logica del testo.

Il libro è edito da Samuele, ha 102 pagine e costa 12 euro: un buon investimento.

 

Pierangela Rossi

 
 
 
 
Beppe Cavatorta 1
nei vuoti di questa
spugnosa
relazione di pomice
s’incunea il senso
galoppante di un’urgenza
e le domande
eluse ellissi
di un conforto
appallottolate
nell’incesto del cestino
spaccano
in una rinnovata
intraducibilità
di rune

 
 
 
 
 
 
un ascensore che sale all’ultimo
respiro in un ammutinarsi rauco
di nubi d’anni carico e di rughe
scongiurato il pericolo del solo
 
del non fatto dell’occasione persa
– destino parallelo di due rette –
là dove uno spurio sfregamento
accende fuochi che purificano
 
terreni fatui quando non li curi
di senso rigogliosi nell’altrove
di piante e animali strani.
 
ed è nella vertigine che sale
d’un sempre l’indiscreto desiderio
che non s’appoggia ad ali per volare.
 
 
 
 
 
 
nell’ammutinarsi della clessidra
s’appoggia inumidito l’indice
su pagine ancora da sfogliare
dove su un dislavato bianco scorri
 
la storia di una vita immaginata
che non è già e che ritarda ancora.
disegni le volute dell’inchiostro
correggi scarabocchi di pensieri.
 
ritrovi su quei fogli immacolati
alienate parole che non scrivi
tutti i magari a cui non puoi dar forma.
 
ed è così che inganni questo tempo:
sogni coagulati nel presente
non schiavi del passato della penna.
 
 
 
 
 
 
e sa proprio di sale il pane altrui
nell’autoimposto esilio dell’estate
quando hai ancora sulle labbra il gusto
di parole che suonano di casa
 
che parlano una lingua che capisci
figlia di un sottinteso appartenersi.
e anche se ha una data di scadenza
anche se sai che un giorno tornerai
 
a sentire i rintocchi della festa
di scampanii in nuvole di rondini
senti sul collo il filo del rasoio.
 
un’altra cicatrice che s’abbozza
nel domandare all’anima di nuovo
di vivere la vita al davanzale.
 
 
 
 
 
 
parole larvate dell’effimero
del fuso solleticano comunque
lasciano indizi che non ignori
da sfogliare di nascosto nell’ombra
 
di un’intuizione che si converte
in essere placando le correnti
che attraversano che complottano
nelle bottiglie vuote della sera.
 
tuoi sono il narciso e il croco
i fiori della dea che ti accompagna
nel denso di questo zoppo andare
 
ma memore di kore non li cogli
e lasci ad altri il lete lo scordare:
un petalo ti basta quando cade.
 
 
 
 
 
 
nel difetto di suono dell’appena
prima di dormire dove un chiasso
di sogni progetta i suoi agguati
rimuovi un’idea di rossetto
 
sfili le ultime vestigia gli ultimi
sgarbi di una giornata intrisa
di prosecco e di parole piane
che ti pulsano ancora nelle tempie.
 
un rito da ripetere ogni sera
per ritrovar te stessa nel salino
di lacrime da ricacciare indietro.
 
nel nero contraccolpo di un’assenza
sfogli i suoi libri con le dita leggere
di chi ha paura di poter fare male.
 
 
 
 
 
 
non ti sciupa il sorriso questa vita
questa città perennemente in corsa
a volte squallida a volte fredda
e insipida. non lo sciupa quello che
 
ti porti dentro anche se è solo il frutto
di una corta gioia una bolla
di sapone soffiata da una te
bambina di anni quarantaquattro
 
e che resiste ancora e che dei venti
non teme la rosa il logorare
lento. e no non nascondi di sapere
 
che tu ce l’hai il rimedio anche agli specchi:
gridare insieme il nuovo di un dolore
con una voce sola un solo nome.
 
 
 
 
 
 
persiste l’altro che il reale nega
in limine ad assiomi monoliti
sotto un’avara nebbia di consigli
lungo slarghi di fiori che non sfogli
 
ti muovi incerta senza coordinate
in cerca dello spicchio di ponente
da dove sia possibile limare
l’amato e fatto tuo cielo d’acciaio
per dare sfogo ad una voce in gabbia
e poi smorzare se non altro in banda
il senso che spasmodico si sdoppia