Artaud: il poeta e il suo doppio – Donato Di Poce


Artaud: il poeta e il suo doppio di Donato Di Poce (I Quaderni del Bardo Edizioni, 2019)

Per raccontare un Autore serve un Autore. Donato Di Poce nella sua ultima pubblicazione (Artaud: il poeta e il suo doppio, I Quaderni del Bardo Edizioni) si sbilancia sul banco della vita di Antonin Artaud con rispetto ed empatia per l’artista francese la cui parabola poetica è volta alle variabili della costante follia e del cronico dolore.

 

Personalmente individuo in Artaud le seguenti poetiche:
Scrittura automatica visionaria-alchemica
Invettiva metalinguistica di rivolta antigrammaticale
Animismo escrementale
Poesia TOTALE e pittogrammatica
Anarchismo polisemico creattivo e rigeneratore
Ecolalia primordiale e battesimale

 
(dalla Prefazione di Donato Di Poce)
 

La penna di Di Poce s’imbeve anch’essa dell’idiomatica incomprensione poetica di Artaud per limare la corrosione dell’anima inquieta che caratterizza i lavori dell’artista.

 

Le pareti di Artaud sono pareti laviche incandescenti, canali di lava cosmica che scende tra le righe assassinate dai silenzi, coaguli di volti polverizzati dal tempo, scalfiti dall’anima e dalla natura malvagia dell’uomo.

(dalla Prefazione di Donato Di Poce)

 

La follia del poeta francese si abbevera dall’iniziale rifiuto degli scritti da parte dell’editore Jacques Riviere. Da qui nasce il paradosso artaudiano: l’editore non pubblicherà gli scritti di Artaud bensì le spiegazioni, anzi, le giustificazioni redatte da Artaud ai suoi stessi scritti, accusati di insufficienza stilistica e contenutistica. Artaud spiega l’incompletezza delle sue poesie iniziali e aggiunge il contesto al testo. Questa scelta è specularmente asimmetrica al pensiero di Rilke per cui la poesia basta a se stessa, è un microcosmo compiuto che non necessita di chiarimenti.

In linea con il pathei mathos greco, Artaud utilizza la scrittura per dissanguare il dolore della sua esistenza che lo obbliga ad un martirio fisico e psichico.

 

Dacci crani di brace
crani bruciati dai fulmini del cielo
crani lucidi, crani reali
e attraversati dalla tua presenza
Facci nascere ai cieli del di dentro
crivellati da voragini in tempesta
e che una vertigine ci attraversi
con un’unghiata incandescente

 
(Da “Preghiera”, Artaud le mômo, ci-gît e altre poesie, Einaudi, 2003)
 

Donato Di Poce ha la sensibilità di tendere l’orecchio al Poeta con una scrittura aurorale e lapidaria al contempo.

 

Hai tolto dalla mappa delle lacerazioni
Il velo di memoria storica
Per far sanguinare nei fiumi della vita
Il puro spirito del sacrificato

 
 
***

 
 

Significativa è la scelta stilistica degli aforismi, ecosistemi finiti di senso e compiutezza che respirano organicamente nella raccolta poetica. Di Poce costruisce un ponte sulle vertigini di vortici generati dal poeta francese senza inciampare nell’occhio del ciclone della riverenza. Tra Autore ed Autore si innesca un comune sentire che costringe all’empatia, en-pathos, di Di Poce ad armare il suo verbo per far amare il verbo.

 

Io sono l’anomalia destabilizzante
Io sono la ferita segreta
Il corpo extratestuale dell’indicibile
Il refuso vivente dell’alterità

 
 
***
 
 
Scrivere non è creare
Ma ri-creare nel verso
L’assassinio della propria visione

 
 
***
 
 
Io non sono un poeta
Io sono lo squilibrio vivente della scrittura
Il paradosso negato dell’essere
La singolarità plurima integrale
Il prisma intangibile del male

 
 
***

 
 

Un omaggio, una presa di coscienza si rivela la raccolta di Di Poce che sibila al lettore una domanda profetica ed elettrostatica: l’estremo pensiero e l’estrema sofferenza aprono forse il medesimo orizzonte? Forse soffrire è, in definitiva, pensare?

 

Chiara Evangelista