Un nuovo modo di presentare libri e poeti. Abbiamo chiesto ad alcuni amici di ritornare sui loro libri non per raccontarli ma per stroncarli, per ammetterne e dichiararne le debolezze, i difetti. Nasce così la rubrica Riletture che ha come focus appunto la rivisitazione critica dei testi pubblicati.
Alessandro Canzian
Approssimazioni è la prima silloge interamente a mio nome che io abbia mai pubblicato. Non la prima che ho scritto, perché il mio primo libro è uscito in realtà qualche anno dopo (questo però è un altro discorso): piuttosto, il primo libro di una certa consistenza tutto mio, se si escludono un paio di plaquette.
Lo scrissi fra il 2011 e il 2013 e lo pubblicai, per i tipi di Pietre Vive Editore, nel 2014, a trentanove anni: un esordio tardivo.
Se dico ciò, non è per tediarvi con i casi miei, ma perché, dopo quattro anni dall’uscita, posso considerare ormai quel testo come opera non più mia, ma di un altro, e quindi guardarlo con l’oggettività che deriva dal distacco. In realtà, considero tutti i miei libri come opere postume perché, quando arrivo a pubblicarli, essi testimoniano la chiusura di un percorso; tuttavia il discorso vale soprattutto per questo, e le ragioni le spiegherò tra breve.
Questo pezzo mi è stato richiesto come una (auto)stroncatura. Ora, ho scritto libri peggiori di Approssimazioni, libri dei quali potrei indicare senza troppa fatica i punti deboli. Questo invece (lo dico senza falsa modestia) credo possa occupare un suo posto nel vasto e magmatico panorama della poesia italiana d’oggi: non un capolavoro, ma un titolo con una sua dignità.
E allora, perché proprio questo? E perché stroncarlo? Perché, semplicemente, se dovessi scrivere un altro libro di poesia – e proprio non so se lo farò – Approssimazioni sarebbe il modello negativo, l’hic sunt leones.
Approssimazioni è, come me l’ha definito qualcuno, un corpo a corpo con la scrittura poetica. Parte da una situazione di assoluta negatività esperienziale, di esilio dal mondo sensibile (siamo già tutti fonema / il processo sembra ormai irreversibile) per (cercare di) approdare, alla fine, a un contatto sensitivo/sensuale con il corpo (il libro si chiude su parole come capezzoli, ascelle, sudore, seno, anche, odori).
E qui c’è già il primo difetto: troppo costruito. Attenzione, non sto facendo la lode dello spontaneismo: un libro deve essere un libro, quindi deve avere una struttura, ma mi pare che qui di struttura ce ne sia fin troppa. Si vede l’impalcatura, si sente il rumore delle bielle. E questo non si fa. La costruzione va bene se c’è, ma non si vede. Non bisogna sbatterla in faccia al lettore.
Il secondo difetto è che nel libro risaltano troppo quelli che all’epoca erano i miei due poli attrattivi: Milo De Angelis e Valerio Magrelli. Due autori diametralmente opposti? Sì, e proprio per questo il libro vive di un dualismo che non riesce mai a sciogliersi del tutto. Di De Angelis c’è la tensione verticale, il procedere per spezzature e salti logici, l’accostamento metaforico di termini lontanissimi; di Magrelli, il controcanto metatestuale, il guardarsi scrivere, le onnipresenti metafore grafico-scritturali (oggi direi, con Vittorio Sereni, che non c’è indizio più chiaro di prossima vergogna / uno osservante sé mentre si scrive / e poi scrivente di questo suo osservarsi).
Insomma: viene il momento in cui, i maestri, bisogna decidersi a ucciderli.
Approssimazioni è il frutto di una tensione visionaria molto accentuata: qui sta la sua forza e qui sta anche il suo limite.
Che cosa, rileggendolo oggi, mi pare vivo nel libro? Esattamente i testi che sfuggono a quanto evidenziato sopra: quelli dove l’espressione si appiana e la voce esce più libera, senza farsi strozzare dallo stile.
Oggi, se dovessi riprendere a scrivere versi – ed è un po’ che non lo faccio –, cercherei proprio questo: una poesia che non voglia essere poesia a tutti i costi, che non parli in falsetto. Che usi parole quotidiane senza farsene appiattire (sì, il Saba della rima fiore-amore).
Approssimazioni è stato forse un passaggio necessario per me. Ma è ora di andare oltre.
Sergio Pasquandrea
Verso la fine
Quale catastrofe ti ha lasciato la spalla nuda?
Quale ustione ti ha levigato?
Di tutta la carne visibile
è la cicatrice
a travolgere gli spazi a ingoiare la luce
più ancora del dente del palato
è lì che si perde il contorno delle sillabe
nei gesti acuminati
ora senti il peso della mora
chi parlerà più dei tuoi polsi
già adesso puoi avere l’esatta
misura del collasso
osservando il margine allontanarsi
l’oracolo tacere.
Economia dei ricordi
Sarà un sintomo certo
(ma di cosa?)
ti penso sempre staccata su schianti
di spuma fredda
sempre di spalle poi sempre verso
un indaco di burrasca
e il gesto è quello bloccato
appena prima di concedere la curva
dello zigomo. Ti penso per metà
disegnata da un vento angolare
per metà perduta nel panneggio
e anche questo – certo – andrebbe
messo nel conto però
intanto qui è stagione di frastuono
di piccole ferite
quel poco che regge devo adoperarlo bene
sarà per questo che ti penso dove non siamo
mai stati che non aspetto di raggiungerti
che come nei sogni la fine
non arriva mai.
Nomina nuda
La mattina certi gesti sono una sicurezza
altrimenti si getterebbe via in un attimo
il lavoro di una vita
di fronte alla verità c’è solo il sangue versato
per questo di tutta la superficie
cerco le pliche.
La risposta lo so è negli odori
i nomi si cancellano troppo in fretta
ti chiedevi che cosa ci trovassi
nel cavo delle tue ascelle
o perché insistessi a sollevarti il seno
nemmeno tu conoscevi i rapporti di forza.
Delle parole non resta mai molto
le cose invece le cose
sì che si arrendono alla bellezza
non resta che farsi cose
angoli d’entrata e d’uscita
il peso e la larghezza delle tue anche
quelle sono una costante fissa
e il sudore giustifica tutti i silenzi.