Antonella Sbuelz

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Michele Paoletti intervista Antonella Sbuelz

 
 

In questi testi di Antonella Sbuelz la scrittura diventa luogo del ricordo. Una preghiera laica e intensa rivolta al passato, con l’intento di mantenerlo intatto, preservarlo dal tempo e dalla dimenticanza. Che si parli di amore o di guerra, temi che tra l’altro sembrano intrecciarsi, la scrittura diventa resistenza: scrivi perché il nome del soldato non si legge più, [scrivi] per la foto in cui ti inginocchi accanto a una croce di legno. Una battaglia incessante contro i fantasmi, i lupi dei pensieri, che non smettono di urlare nella mente di chi la guerra l’ha vissuta davvero e una battaglia persa quella raccontata nella lettera immaginaria scritta ad un amore ormai finito.

La scrittura consegna dunque al tempo la memoria di coloro che ci hanno reso ciò che siamo attraverso un dialogo incessante che non può e non deve mai interrompersi.

 
 

Come nascono le tue poesie?

La maggior parte delle mie poesie degli ultimi anni è nata intorno a figure di memoria che appartengono alla mia microstoria familiare e affettiva, ma anche alla nostra Storia collettiva.  In tal modo hanno preso forma alcune raccolte (penso soprattutto all’ultima, La misura del vicino e del lontano) che attraversano scorci e squarci dei grandi eventi del Novecento, osservati attraverso quel particolare laboratorio di serrati confronti e contrasti che sono spesso le terre di frontiera come la mia. Per tornare alla tua domanda: in questi casi la genesi delle mie poesie è data da un’immagine che spesso riaffiora dal passato e che si impone con estrema prepotenza, finché io non le do ascolto e non ne traduco l’urgenza attraverso dei versi, che spesso mi sembrano una forma di riscatto – per quanto imperfetto, tardivo e illusorio- di vite troppo spesso destinate al silenzio e all’invisibilità. Prendono forma, così, figure grandi e piccole (ma soprattutto piccole), che sono vissute nelle zone d’ombra della cosiddetta grande storia, attraversando guerre, migrazioni, strappi, profuganze. Ma anche sogni, ricostruzioni, utopie. Come afferma Carlo Ginzburg, si tratta -in fondo- di vedere in ogni goccia il mare. In questi casi nascono liriche dal respiro narrativo, ampio e dilatato, in cui la necessità del racconto patteggia con le norme, l’essenza e la complessità del “fare poesia”.

In qualche altro caso, quando le poesie sono invece più intimamente personali, i miei testi prendono invece il via da una suggestione sonora, da una fascinazione ritmica, da un verso che funge da polo di aggregazione e di germinazione per i versi che verranno.

 

Quali sono i tuoi autori di riferimento, quelli a cui ritorni mentre scrivi?

Questo genere di domanda, anche se interessante, mi mette sempre un po’ in difficoltà, perché per chi è stato fin da bambino un lettore bulimico, come me, i riferimenti sono tanti e i debiti spesso inconsci, in quanto attraversano gli anni e si contaminano continuamente. I primi poeti che ho letto da ragazzina,  con un approccio ancora estremamente naif, sono stati Garcia Lorca, Pablo Neruda e Paul Eluard. Ma avevo solo 13 o 14 anni, e il mio era un saggiare irrequieto, curiosissimo, impulsivo e compulsivo. Agli anni universitari associo invece, in particolare, un amore consapevole per Montale, di cui ho sempre apprezzato molto, oltre al dettato poetico e alla molteplicità timbrica,   anche la consapevolezza di non poter attingere a certezze ideologiche quale antidoto consolatorio rispetto alla precarietà e fragilità della condizione umana (Non chiedermi la parola resta in tal senso un testo programmatico) .

Amo poi la poesia rigorosa e cristallina di Pierluigi Cappello, che è stato per me anche grande amico per oltre vent’anni, e i versi pensosi, arguti, amari, apparentemente ironici e fortemente interlocutori di Wislawa Szymborska. Ma dovrei anche ricordare almeno Milosz, Zanzotto, la seconda e terza fase poetica di Luzi (quella meno ermetica e più aperta alla memoria autobiografica), alcune raccolte di Antonella Anedda… Tante, insomma, le suggestioni. Forse è impossibile ricordarle tutte.

 

La scrittura può essere la ricerca di una forma di salvezza?

Per me certamente lo è stata. Sarebbe un discorso lungo, complesso, impegnativo. Mi è capitato di scriverne anche recentemente per una rivista (l’articolo si intitola Scrivo dunque sono: necessità e potere della parola scritta). Che la parola scritta (poetica e narrativa) possa assumere funzioni potentemente terapeutiche è fuori discussione. Naturalmente, però, questo può essere solo il punto di partenza. Per crescere, per farsi consapevole e matura, la scrittura richiede molto di più che essere “semplice” strumento di salvezza. Richiede lettura (tanta, buona), impegno (illimitato), rigore,  confronto, accettazione paziente del lavoro di scavo e di ripulitura. E,infine, molta umiltà. Umana e letteraria. Perché a monte della poesia c’è lo sguardo poetico, che deve essere sempre aperto, vigile, empatico.

 

Ho letto recentemente che ti sei occupata di poesia nelle carceri. Ci vuoi parlare di questo progetto?

Sì, su richiesta di un’Associazione della mia città, Udine, mi è capitato di tenere incontri con dei detenuti e di entrare a far parte della giuria di un Premio (Il Premio Battistutta) che si rivolge appunto alle persone private di libertà personale, su tutto il territorio nazionale. Anche questo, ovviamente, è un discorso complesso, che mi è difficile sintetizzare in poche righe. Per me si è trattato di un’esperienza emotivamente molto forte e di un confronto importante. Anzi, potente. Con il gruppo di detenuti ho discusso, ma soprattutto ho ascoltato. Mi ha colpito quanto bisogno di ascolto provenga da persone che vivono in condizioni  segregate e davvero difficili da immaginare. Abbiamo letto (molta poesia , e molta poesia della Szymborska), ricordato, condiviso memorie e fragilità, aperto spazi personali. E infine, tutti insieme, abbiamo scritto. Ne sono nati momenti di estrema confidenza e anche di vivissima emozione.

 

Oltre a scrivere poesie sei anche un’ottima narratrice. Vuoi raccontarci qualcosa su come nascono i tuoi romanzi?

Il mio primo amore è stata la poesia. I racconti e i romanzi sono venuti più tardi, e le due forme di scrittura continuano per me a convivere, integrandosi e contaminandosi fortemente.  La mia poesia tende a essere molto narrativa, la mia narrativa tende a essere, dicono, molto poetica. Naturalmente, però, ogni raccolta di versi e ogni romanzo ha poi una sua cifra e una sua specifica identità.

 

Ci vuoi anticipare qualche progetto su cui stai lavorando?

Sto lavorando , come mi capita spesso, su un doppio versante: poetico e narrativo. Sto concludendo la mia ultima raccolta, che includerà una sessantina di testi scritti negli ultimi due anni. Agli inizi dell’autunno uscirà inoltre il mio quinto romanzo, La ragazza di Chagall, che fa seguito a una raccolta di racconti e ai romanzi Il nome nudo, Il movimento del volo  e Greta Vidal(questi ultimi usciti con Frassinelli) e a La fragilità del leone. Come quest’ultimo, anche La ragazza di Chagall uscirà con l’editrice Universitaria Forum, molto vivace e dinamica. Sto inoltre seguendo alcune traduzioni delle mie storie, a cura di un paio di università. Anche questa è una bella esperienza. Come sosteneva Umberto Eco, ogni traduzione implica la relazione con molti e distinti piani di fedeltà: alla lingua, alla cultura, alla sensibilità individuale… Nella traduzione, l’autore o l’autrice ritrova il proprio sguardo all’interno di un altro sguardo, in un gioco di specchi che può rinviare e moltiplicare  le prospettive, in un confronto estremamente vivo… É affascinante, non trovi?

Grazie per le tue domande e per questo dialogo, Michele.

Si scrive sempre per dialogare.

 
 
 
 
Oggi ti scrivo
 
Oggi ti scrivo perché fuori piove,
e la pioggia di maggio è più forte
della forza del mio dimenticare. Ti scrivo
perché questo è il mio pregare, perché scrivere
è la sola trama asciutta nel fradicio di giorni
senza trama.
Ti scrivo perché oggi ho ricordato
che in un giorno così ci siamo amati,
e amati come quando ci si ama
senza pensare al futuro, senza pensare
al passato: col corpo teso e intatto,
spaventato. Con la sola ragione dell’età
quando l’età è una stagione buona
e la vita sta nel palmo di una mano:
un pane col suo lievito di attese.
 
Oggi ti scrivo perché fuori piove.
Ti scrivo da un poi, da un lontano, da un mese
che è lo stesso mese ma non conserva il verde
di quell’erba, l’azzurro di quel vento nel suo volo,
il morbido di un pane senza sale.
É quando la vita si ritira
che amarla fa più bene
e fa più male.
 
 
 
 
Seta di guerra
 
Era una candida nube, il vestito della prima comunione.
Forse soltanto tua madre
conosceva il segreto del suo velo,
il suo planare di luce da un cielo di fulmini
e guerra. Soffiava bora, forse. O tramontana.
Forse il soldato col paracadute
riuscì a trovare un suo nido nelle macchie
di sottobosco che esondavano odore di muschio,
seduzioni di mirtilli e di lamponi. Forse
invece era stato colpito.
Non lo sapevi. Non lo saprò mai.
Ma la seta del suo paracadute
planò sulla zolla di prato e rivestì la terra di magia,
fluttuando le fosforescenze   lente
del suo sontuoso fiore di ninfea. Quali mani
lo toccarono per prime? Quali mani
lo raccolsero da terra,
lo nascosero in fondo a un batticuore, lo convertirono
alla pace – alla forma di una veste  da bambina –
a colpi di ago e di filo?
 
Tu ti genufletti, nella foto,
e con te si genuflette il maggio ingrato
di un dopoguerra ancora fresco e duro.
Il candore del velo di seta aggiunge luce
alla luce
e fa di te una sposa di otto anni, una promessa
di vita accanto a un cesto  di rose.
Se ti guardo ti ritrovo. Mi ritrovo.
Controvento, sul ciglio
delle cose.
 
 
 
 
Lupi
 
Tu li chiamavi i lupi dei pensieri.
Forse i lupi
li avevi conosciuti, nei tuoi dodici anni
di guerra dalla Spagna alla Libia e all’Albania.
Oggi osservo le tue foto in bianco e nero,
il tuo corpo fra i profili seghettati
di immagini scattate chissadove.
Avevi il viso mite. Il corpo magro. E sopra
il corpo magro una divisa, e sepolto nel corpo
un amore che ti aspettava indomito, cocciuto.
E il segreto di qualche  puttana
che ti aveva salvato
a  Durazzo, cullandoti come un bambino
sfuggito ai roghi e al gorgo delle onde
dopo l’incendio della Paganini. Ma
mi leggevi Dante con l’amore
di chi è sopravvissuto
ad altri inferni, a segreti gironi infernali.
E allora scrivi, io mi dico ancora. Scrivi
per i lupi dei pensieri,
per battaglie senza cornici, per la foto
in cui tu ti inginocchi accanto a una croce di legno.
Per il nome del soldato sulla croce.
Scrivi perché il nome del soldato non si legge più
neppure con la lente. Scrivi
per le donne di Durazzo.
Per altre guerre. Scrivi contro il niente.