La Redazione di Laboratori Poesia è felice e orgogliosa di proporre l’anteprima della nuova raccolta di poesie di Mattia Tarantino: Se giuri sull’arca (Fallone Editore, in corso di pubblicazione). Pubblichiamo alcuni testi tratti dal nuovo libro, la copertina e la prefazione di Michelangelo Zizzi.
Mattia Tarantino (Napoli, 2001) codirige Inverso – Giornale di poesia e fa parte della redazione di Atelier. Collabora con numerose riviste, in Italia e all’estero, tra cui Buenos Aires Poetry. Per i suoi versi, tradotti in più di dieci lingue, ha vinto diversi premi. Ha pubblicato L’età dell’uva (2021), Fiori estinti(2019), Tra l’angelo e la sillaba (2017); tradotto Verso Carcassonne (2022) e Poema della fine (2020).
Davide Cortese
Mattia Tarantino esiste come un’impalcatura a priori sul segreto generativo della poesia.
La preveggenza del verso è sempre una coscienza di esso, il cui fine è un atto recitante senza freni. Siamo quasi al modo di Mallarmé che indìce un’algebra numerologica, cabalistica, alfabetica, riconoscendo alla testualità la sua preesistenza (al modo delle idee di Platone) e la sua posticipazione al modo del fatto, del fato, al modo tipografico. C’è poi in questa opera una nervatura passionale (quasi impensabile, laddove in questo caso ogni passione pare ristretta e asciugata), esistenziale, che apporta al campo poetico l’impensabile della raffigurazione. Perché questa è poesia dell’irrappresentabile, dell’ingiudicabile condizione di essere prima o di essere dopo nel linguaggio.
Se giuri sull’arca gode del ritmo profetico che sta sempre tra impostura e rivelazione. Ed è sulla profezia che la lingua si fa rarefatta ma necessaria; quasi lingua d’uccelli, d’avventori momentanei e casuali del poemetto, di estinti fonemi riattivati. Notevole la ricompensa di cose/fatti all’interno del testo che tanto è svaporato quanto ricadente su un materiale congruo, percettibile. Qui le tradizioni pop di certa poesia si estinguono in un’atmosfera di caos apparente e, tuttavia, si ricompongono secondo l’ordine del caos.
Qui restano il presumibile, il terrore, il ritorno.
Perché tutto va nell’accademia farmaceutica (di Platone oppure oltre) o perché nessuna cosa è oscena per Tarantino. Perché questo è il poemetto di chi decide a un verso il destino dei linguaggi. Perché l’autore ha nella disciplina dell’azione attoriale e poematica, per quel che ancora può dirsi un “verso” propriamente inteso con orientamento, un accordare la direzione, la capacità di sradicare la tendenza di bussola, di orientamento generale, mantenendo saldi i nervi, raccordando le corde che tengono il linguaggio non comunicativo.
In questo luogo, dove i deserti sono distopici tanto quanto lo è l’essere scarni, si determina il viaggio linguistico che è transito e che decide l’esaurire il proclama e le sue conseguenze sedative, l’annullare le prescrizioni. La scrittura di Tarantino risulta pertanto rupestre (nel senso della sedimentazione minerale della lingua), arrogante, limpidamente cosciente e paradossalmente sciolta e incolume, come quella del mendico o dell’infante.
Così la conseguenza poetica di quest’opera è gnostica e irreparabile quanto la vita ridotta all’osso di Sant’Antonio Abate, che si cibava di radici di tamerice e poté resistere a venti di sabbia di deserto nella catabasi d’altura di una colonna ascetica di mattoni impilati. Perché questo è il problema: se Tarantino non dimostra una esigenza metafisica, la dimostra la sua poesia.
La sua infatti è poesia non da copisteria ma tutta sperimentale e quasi eroica, senza troppa attenzione alle avanguardie, che pure pare conoscere benissimo; forse affinché nessun brusio possa disturbare il sonno tecnografico di una pretesa superiore: spiegare, invece, quindi ammazzare il prospetto metaforico della poesia comune e claudicante; restare nella cuccia del riepilogo d’ogni attore (significante, dico: significante) linguistico a 23 anni e anche nella brevità o nella levità del levriero nel fiutare le forme di una poesia futura che ripristina la leggenda della partecipazione sociale e politica e che cede al lettore tal quale o, in ultima ipotesi, che dice dello spettacolo minore di aver visto, di aver preso parte a una visione, che è quella perduta e mitografica di un profeta incolume e nascosto.
In questo luogo che è Se giuri sull’arca pochi critici possono aver passo, perché Mattia Tarantino potrebbe avere, e forse ha, l’arroganza erudita di pochi e il fascino sincretico di pochissimi. Per questo qui non c’è stella polare né un astrolabio, bensì solo viandanza, che è il luogo senza preveggenza di approdo.
Michelangelo Zizzi
da Se giuri sull’arca
I
PRIMA VOCE: (canzonando)
Se ce lo chiedete non ve lo diciamo.
SECONDA VOCE: (sussurrando, sempre)
Come qualcosa che passa, qualcosa che striscia. Uno scricchiolio.
TERZA VOCE:
Imparerai a parlare con le ombre.
PRIMA VOCE: (ancora canzonando)
Non ve lo diciamo.
TERZA VOCE:
Avevamo allacciato l’arca al loro regno. Al regno nero della trasparenza. Alla fine del mondo.
PRIMA VOCE:
Non è che non vogliamo.
SECONDA VOCE:
Come per chi cerca il giro della serpe. Il segno arrotolato nel nulla.
PRIMA VOCE:
Non ce lo hanno detto. Lo abbiamo chiesto, croce sul cuore.
SECONDA VOCE:
Come bisbigliando in un orecchio gigante. L’entrata sul retro sigillata parlando.
TERZA VOCE:
Poi siamo salpati. Nessuno ci ha dato il permesso. Nessuno ci ha detto di no.
IV
Perché l’acino, come l’Immagine, è nella sgranatura che assolve il suo mistero. Perché vediamo una terra, adesso, che urta contro il nulla, sbatte ai bordi, sembra bussi. Ci gira la testa. Ora che si staccano dal cielo sappiamo quanto fragorosamente collassino. Un tonfo, un buco tra la nostra testa e il Nulla, dove affiora la terra e qualcuno è a riva, ci aspetta da sempre. Ci guardiamo, sono uomini nudi con corna arcobaleno. Passano, correndo, tra gli scogli, una grande bestia li accompagna. La chiamano, la amministrano, pare la preparino al massacro. Fuochi accesi per la notte e tende, fumo. Portiamo mele annurche, una maschera di carbone. I primi li seppelliscono nel buco. Corpi celesti per altre rotazioni. Ci chiedono quello che tutti ci hanno chiesto. Non diciamo una parola e siamo ancora salvi.
da Sciababàb
I
Parlano, ma come gli uccelli, un dialetto celeste. Il fuoco è acceso e il villaggio più vicino. C’è il pane caldo, l’anice da scaldare insieme al vino. Saranno ricordati in carovana, come in fila per presentarsi al Giudizio, ma nessuno li vede oppure non esistono occhi; jolly d’ombra che frugano nel fogliame, che strisciano, convulsioni nelle province dell’ombra. Nottenati, Cunicoli, come nomi di popoli smilzi, fantasie di popoli scalzi. Smàcchera zan ca tio perēse, ca sa pèrese rubina i scancia. Parlano, ma come uccelli dai becchi mostruosi, dai becchi d’anice, liquidi, smacche zatàn come grumi, come calcoli, un dialetto di reni celesti se tutta la lingua è un’orma, se qualcuno si allontana dal villaggio, viene, se fischia.
IV
Come per dire qualcosa che zaraglia, una sciàcada vischiosa che rangrasta. Scuoiano il maiale, lo spellano, sminuzzano. Un calderone d’ossa, il maiale sembri tu, sembri tu questa mezzaluna sfessata nei libri, la Scrittura che trema se tramandi un salmo, un verso appena. Lo dividono, a ciascuno la sua parte, il fegato agli intrugli, il muso ai vecchi, o ai cani, la lingua a chi ha coraggio e sembri ancora non capire, sembri un incubo.
da L’Ermeneuta
I
Al primo lo incidono sulla schiena ma non ci crede. Lo stesso segno è sul dorso della moneta. L’altro ha baciato la pietra la prima notte dell’anno. Il capo del toro, calato dall’uscio, è stato fracassato e sepolto. Alla festa indosserà la maschera della bestia, quattro volte cornuta. All’ultimo taglieranno l’anulare.
IV
I robota nelle grotte con le bestie, sangue sintetico, di frontiera, lunare. L’Ermeneuta è stato dissepolto, li ha annunciati.
IL PRIMO: (farfugliando)
lan zanè…
mattatah…
ba, ba, pe galùppe…
LA VORAGINE:
Se viene, se ti schiantano la lingua. Questo è il dominio delle voci da tamburo, dell’icona del toro, corna grasse, cosa credi?
IL PRIMO: (strisciando sui gomiti verso i tentacoli che emergono dal buco)
mattatah…
babagaluppe…
mattatah…
LA VORAGINE:
Sono loro la macchina sintattica, Mattath, sono loro che connettono e tu non vedi niente, guarda cosa accoppiano, come scorre. Quanto vento…
(sibili ventosi, un crescendo di fruscii, come una truppa di serpi d’aria marciasse strisciando)
MATTATH: (avanzando sui gomiti, tra i tentacoli, fino all’orlo del buco luminoso, fa per parlare ma c’è luce dappertutto, un neon fosforescente, come santo)