Amén di Sergio Daniele Donati (Il Leggio Libreria Editrice) non è un semplice itinerario poetico, piuttosto un’esperienza di poesia che arricchisce e solleva. Lo penso soprattutto grazie alla tensione umana che lo percorre tutto, come un arco teso ad incontrare il senso e al contempo come vaso che desidera riceverlo, incastonato in un duplice convergente dinamismo – andare verso e stare nell’attesa, come potrebbe definirsi anche il gesto di una preghiera, anche senza che questa debba necessariamente rivolgersi ad un distinto ben individuato “tu”. Una tensione umana che desidera abbrancare l’essere a cui appartiene, fin nella sua ancestralità, come per abbracciarlo senza più differenze (“è ora d’essere Altro, d’abbracciare / altro”- p. 26), e che ha come nascita una poesia a sua volta offerta per farlo affiorare nella sua integrità di spazio di luce e bellezza. Tensione che si esplica anche per “dare vita al bello”, costituita nella sua natura da un desiderio generativo, per un luogo in cui finalmente ci si possa riconoscere investiti da quel “pugnale di luce/che lacera/l’abbraccio della penombra” (p. 24).
Ci sono molte cose da meditare attraverso le parole che emergono dal fiume dell’Essere grazie la poesia di questo libro, quel fiume, per Donati, antico e sacro da cui cogliere, sporgendosi nel suo ascolto, quella Voce che indica di volta in volta le parole da pronunciare, mentre le altre escluse continuano la loro vita nel suo Silenzio che non muore.
Ho molto amato la distinzione dell’Altrove dal sogno, mi ha colpito la sottolineatura di tale differenza. Il sogno, le sue visioni, solo una maschera che divide dal Sacro e ne impedisce l’affioramento. Il sogno come una materia unicamente umana, manufatto mentale fisiologico del sonno, stasi inquieta e non certo via di comunicazione con la verità del luogo ancestrale dell’Essere da cui tutto proviene e che tutto sostiene.
Molto inoltre mi ha detto trovare indicata come intermediaria alla vita del Sacro la cifra dell’”interstizio”: “Canto il silenzio dell’interstizio” (p. 76, verso di una poesia, tra le altre, splendida), che è per Donati il canto dell’umiltà, che il linguaggio dovrebbe acquisire per indicare l’Altro. Un’esigenza da associare spontaneamente all’importanza del ritrarsi per poter lasciare spazio alla Vita, nella consapevolezza di essere solo strumenti incompiuti ma, proprio per questo, resi dono di ricettacolo del mistero dell’Essere.
Naturale un paragone con Rainer M. Rilke: in alcuni luoghi della poesia rilkiana (in particolare nelle Elegie Duinesi e nei Sonetti a Orfeo) ci imbattiamo proprio nella cifra dell’interstizio, come luogo privilegiato di epifania dell’indicibile-invisibile-atemporale “spazio interiore del mondo” (Weltinnenraum), come pure alla base della sua concezione di ars poetica ritroviamo l’idea cara a Donati del poeta come umile strumento di espressione dell’indicibile, ma direi con una differenza sostanziale: Rilke, nonostante la coinvolgente e inquieta trama linguistica tesa ad esprimere i luoghi sofferti dell’assenza e dello stretto legame tra essere e non-essere, ha sempre nutrito un’estrema fiducia nella parola, nelle sue potenzialità espressive e per lui ontologicamente creatrici. Amo molto la poesia di Rilke, ma ho sempre guardato a questa sua fiducia come ad una suggestiva illusione e come infine ad un indiretto tradimento nei confronti della vera natura della parola, nonostante la prospettiva rilkiana sembri andare nel senso della sua esaltazione e valorizzazione. Prospettiva invece estranea alla poesia di Sergio Daniele Donati, dove al contrario prevale autenticamente un amore incondizionato per quell’Indicibile, unito ad un sincero sentimento di inadeguatezza di semplice “strumento”, che però, proprio paradossalmente per questo, acquisisce dignità e grandezza. E la parola, proprio perché vissuta come insufficiente, ancor più luogo di rimando, segno, della Parola.
Molto altro si potrebbe dire, approfondendo, ma aggiungo solo un’ultima cosa: la poesia di Donati mi richiama prepotentemente l’immagine di un poeta “in cammino”. C’è tanto dinamismo, tanto andare nella sua poesia. Dialoghi, attraversamenti. Essere sempre “verso a”. Così la poesia per lui non è mai una rassicurazione statica, ma è incitamento alla ricerca, pungolo di vita e trasmissione infaticabile. È crogiolo attivo di attesa. Non so, ma in questo (e non solo) intravedo un legame importante con la storia personale di Sergio Daniele Donati, con la sua appartenenza al popolo ebraico. Un peculiarità preziosa, una differenza importante nel panorama poetico attuale, che andrebbe meditata molto attentamente.
Carla Cenci
L’ora del ritiro
È ora del ritiro,
del dire che si fa luce
e tacita nel vento
l’intenzione d’essere.
È ora d’ascoltare il passo del timido;
il passo sovrano e ritroso
che mostra il bello
offrendoci la schiena.
È ora di dire: “ho fallito,
ho detto troppo,
ho annegato in un fiume malsano
il canto della foglia”.
È ora di divenire petalo di nuovo
e non sentire più rimpianto
per la voce di un maestro
morto troppo giovane
per completare l’opera.
È ora di dirsi incompiuti
e accettare innesti di piante
estranee su rami senza frutti
e godere dello spettacolo
circense che dipana
dalla nostra fuga dalla vita.
È ora d’essere Altro, d’abbracciare
altro, di cambiare nome
e lasciare che tornino
nei miei occhi
striature verde muschio
perse in un’infanzia tradita
Voci
In attraversamento poetico con
Rainer Maria Rilke (Praga, 1875 – Montreux, 1926)
Non chiedo a chi appartengano quelle voci,
quei richiami animali e fruscii di foglie, quelle luci
che filtrano lente e inattese, mentre il passo
sosta improvviso e tace (finalmente) il brusio della vita.
Non chiedo perché ogni domanda è sovrapposizione
di significato al suono (di simbolo a iride).
Non chiedo, e la domanda (mai posta) mette radici nel luogo
ombroso della sua gestazione.
La domanda è prima della parola, di ogni parola,
e la risposta è nel ginocchio che cede, nel tendine
che si lacera e impone a occhi bambini
di toccare la terra e tornare tra i muschi.
Là, tra antenne d’insetti, e maceri di fogliame ho raccolto
ossa di avi. Ognuna cantava con timbri di cembalo e,
lanciata in aria, tornava dopo secoli al firmamento
che gli aveva dato nascita.
Non chiedo a chi appartengano quelle voci ma le ho contate
una ad una, e ho dato loro un nuovo nome
mentre il pelo sul mio volto si faceva
candido e la mano rugosa.
Ascoltare, Maestro, è tornare nel palmo delle proprie mani,
percorrerne con lentezza di lumaca ogni solco e dirsi uomo
capace di non porre domande a un cielo pudico
che tace; per non annientare il sogno.