È ambientato a Creta, in una dimensione sospesa tra mondo greco e orientale, il mito di Ifi e Iante: a raccontarlo è Ovidio nelle Metamorfosi (IX 666-797): un uomo di nome Ligdo, poco prima che la moglie partorisca, le intima di uccidere il nascituro, se non fosse stato un maschio. La donna, disperata, cerca inutilmente di fargli cambiare idea, ma una notte le appare in sogno Iside, che la rassicura e le suggerisce di mentire al marito, salvando la vita della bambina che stava per nascere. Teletusa obbedisce volentieri al comando divino e inganna Ligdo, lasciandogli credere di aver dato alla luce un maschio. Ifi viene dunque allevata come un ragazzo. Tutto procede tranquillamente fino a quando, dopo aver compiuto tredici anni, le viene promessa in sposa la più bella delle ragazze del luogo. Di lei Ifi si innamora perdutamente, ricambiata, sebbene neanche Iante, la futura sposa, sospetti che dietro il travestimento di quel bel ragazzo si cela una fanciulla. Infatti tanto il nome che l’aspetto contribuivano bene all’inganno. In trepidante attesa delle nozze, dunque, era la sposa, mentre vivevano logorate dalla disperazione Ifi, al pensiero che mai avrebbe potuto concretizzare il suo sogno d’amore, e sua madre, che faceva slittare sempre più in avanti il matrimonio, con vari pretesti. Un rasserenante lieto fine non tarda ad arrivare: nuovamente invocata da Teletusa, Iside risponde alle preghiere di madre e figlia, trasformando quest’ultima in un ragazzo: la metamorfosi si compie nel giro di pochi ed agili versi, sugellati da un’epigrafe dal tono vagamente criptico e oracolare: “Dona puer solvit quae femina voverat Iphis” (v. 794, un ragazzo scioglie con i doni i voti che Ifi, da donna, aveva fatto). Ma a colpire l’attenzione del lettore, ancora oggi, non è tanto il cambiamento del protagonista da donna a uomo, con la progressiva costruzione e demolizione di una identità di genere, nonostante e al di là della definizione biologica, quanto la straordinaria abilità narrativa con cui Ovidio riesce a districarsi tra i meandri di una complicata vicenda erotica, percorsa con la competenza che una lunga pratica elegiaca gli aveva consegnato: soffre e sospira d’amore la giovane Ifi e la maggior ragione del suo cruccio non sta nel timore di essere scoperta, ma nel non poter vivere pienamente il suo desiderio: Iphis amat, qua posse frui desperat et auget/hoc ipsum flammas ardetque in virgine virgo;/vixque tenens lacrimas: “Quis me manet exitus,” inquit/ “cognita quam nulli, quam prodigiosa novaeque/ cura tenet Veneris? (vv. 724- 728: Ifi ama colei che non ha speranza di poter possedere e questo accresce la fiamma; brucia per la vergine una vergine; “Che ne sarà di me, che sono preda della mostruosa pena di una passione sconosciuta?”). Il mito di Ifi e Iante, rivendicato dalle pagine di quella che oggi viene definita transletteratura, conduce, invece, a riflessioni profonde e a perplessità difficilmente risolvibili: dal verso 731 fino alla conclusione, il lamento di Ifi è teso totalmente a indicare la follia (furor) di questa passione straordinaria e senza precedenti: interque animalia cuncta/ femina femineo correpta cupidine nulla est (tra tutti gli esseri viventi non c’è nessuna femmina travolta dalla passione per una femmina). L’affermazione chiude una sequenza di versi in cui dalla natura vengono recuperati esempi di amore etero e perfino le combinazioni erotiche più sorprendenti, chiamate in causa come pertinenti alla peculiare mitologia cretese (Pasifae, moglie di Minosse, aveva desiderato a tal punto di unirsi a uno splendido toro che, riuscendo nell’intento con un geniale stratagemma, aveva poi dato alla luce il Minotauro), non fanno che confermare che l’unica forma di amore realizzabile per una femmina è con un maschio: l’ambiguità che pur qualche verso sembra cullare (vv. 747- 748: Quid sis nata, vide, nisi te quoque decipis ipsa,/et pete quod fas est, et ama quod femina debes: renditi conto che sei nata donna, e se non intendi ingannarti da sola, mira a quel che è lecito, e ama quel che da femmina devi1), viene stroncata da un esplicito at non vult natura[…]/ quae mihi sola nocet (non lo concede la natura, che sola è contro di me). Pur nell’intento di evitare di ripetere un’ovvietà, e cioè che la cultura classica ha una grande familiarità con l’omoerotismo, non si può che soffermarsi perplessi dinanzi a tanta insistenza: nel mito raccontato da Ovidio, la questione si risolve, certo, ma solo virtù di una trasformazione biologica, determinata da un miracolo di Iside, divinità il cui culto è, anch’esso, di pertinenza essenzialmente femminile; eppure Ifi ama Iante da donna, e in quell’amore permane anche quando il suo sesso muta, come se a null’altro la questione biologica pertenga, se non alla meccanica dell’eros. Di tanta complessità resta, forse, l’amara consapevolezza che una traduzione logica del passo non può che azzerarne la poetica, che nel testo originale procede smarcandosi meravigliosamente da qualunque definizione di genere grammaticale, insieme alla curiosità inestinguibile di seguirne l’evoluzione in riscritture contemporanee capaci di delinearne nuovi e coraggiosi orizzonti.