C’è una tensione nel dire, nel tacere, di fronte all’enormità dell’esistenza, di fronte al mistero della vita e della morte. Un anelito incontenibile che sa farsi verso d’amore, bisogno di riconoscimento e completezza, e poi uno sgomento, il precipitare in una voragine indicibile, di fronte alla realtà del dolore e della fine. Una ferita lancinante nella sua sconvolgente quanto semplice verità, se la poesia di Mauro Liggi è intessuta di un dolore quotidiano che si scontra quotidianamente con la precarietà e con il tema della fine, ma che tuttavia sa farsi canto di pura bellezza, poesia di amore e di attaccamento alla vita: «Nel cuscino dove ti ho chiuso gli occhi / ora mi guardano spalancati/ quelli di un mistero che mi sovrasta / mi schiaccia, urlante: / dopo la morte, l’amore per la vita» (p.25).
Il poeta riconosce il mistero che ci sovrasta, ne vede il volto ogni giorno, nel logorio di un paziente in un letto di ospedale, nel mutuo tempo che consuma ricordi e affetti, nell’assenza che conferma la mancanza; il poeta sa da medico e da uomo ormai che la vita è imparare a lasciare andare, nel ritmo di un punto-croce di un gomitolo che divora una vecchia coperta, in una mano da stringere e ora non più. Alla terra i miei occhi di Liggi (Interno Libri, 2024), prefato da Anna Segre, riconsegna l’uomo alla sua dimensione umana, non mitiga il dolore, non snatura o sublima la morte, semmai la riconosce nella sua verità ineluttabile, di fronte a cui il poeta fa dono di umana grandezza e dignità, abbassa gli occhi alla terra, a quell’originario humus che ci genera alla nascita e poi ci accoglie con la fine. È alla terra che torna il poeta, con uno sguardo pieno di amore, quella terra che accoglie il perdono, quella capace di generare nuova vita, quella che sa farsi albero e poi nuova linfa vitale, dove l’amore è come un seme, l’inizio di tutto («Solo uno squarcio di luce/ solo, vi prego, / un domani qualsiasi», p.22). Ma gli occhi del poeta, così posati verso il basso che si fa culla e radice, gli occhi che si abituano alla realtà umbratile della perdita, si librano verso alti orizzonti lì dove la parola è ancora capace di cieli tersi e di sguardi d’amore.
Il risultato è quello di una poesia che vibra di un attaccamento alla vita, che capovolge la dimensione della fine in una viva dichiarazione d’amore: «L’amore è battaglia / da cui si esce malamente vivi/ apparentemente morti […] per quante siano le macerie / le perdite sul campo / è il riscatto dalle tue miserie/l’insopprimibile attrazione/ della pienezza che chiama» (p.59).
Una poesia che sa di rosmarino, di mirto, di corteccia d’albero e di baci aspri e squarci di luce e sprazzi di cielo che rischiarano albe e vite che seguono alla morte («Che tenerezza l’alba / che invade gli ospedali /esitante / come la vita / che muore / e dopo la morte / la vita» p.52), tra i cui versi resta come una presenza sottesa, un germoglio, un dito di blu, quel seme d’amore da cui tutto si origina e grazie a cui tutto resta.
Laura D’Angelo
Nella stanza dove ti ho visto morire
ora piange un bambino
nel letto del tuo rantolare
una madre lo allatta al seno
un padre è sommerso dalla gioia
pelle che profuma d’infinito
nel comodino tra le tue medicine
calzine celesti tutine colorate
ciucci giochi che trillano.
Nel cuscino dove ti ho chiuso gli occhi
ora mi guardano spalancati
quelli di un mistero che mi sovrasta
mi schiaccia, urlante:
dopo la morte, l’amore per la vita.
Indichi il cielo
a me, solo a me
che con il camice bianco
provo a trattenerti qui
sfidando il tempo
la logica
la scienza.
Ma tu
indichi il cielo
il dito già blu
perché sai
quello che anche io so
tu succo di mela cotogna
io volto di catrame
muto è il grazie
prima del viaggio.
Tieni tra le labbra
la margherita appena colta
l’addenti
come fai con il mio collo
trasformami in ogni petalo
battezzato m’ama
nella luce che filtra
dal buco dei tuoi lobi.
Amami semplice
nudo fragile felice.