Al di là dell’ombra – Adriano Sansa

Per parlare di Al di là dell’ombra (Elliot Edizioni, 2022) del poeta croato Adriano Sansa, potremmo citare una frase dal libro Sunset di Don Winslow: «Nessuno che non abbia perso un coniuge di cui era innamorato conosce il vero senso della parola “crepacuore”». Di questo senso è infatti ricolmo, fino a traboccare, il libro di Sansa: la presenza della moglie è sì nei ricordi di chi resta, ma ritorna come un’eco nei luoghi da lei abitati e frequentati. Lo dice egli stesso in una nota iniziale alla raccolta: «le parole tentano una prosecuzione del colloquio svoltosi nel tempo della vita, talora rievocandola nei suoi momenti di felicità […]; altrove invece nominandola nella sua dura necessità».

Queste parole possono aiutarci a capire anche il dolore contenuto in certe parole usate per comporre questo libro. In Al di là dell’ombra non ci sono sezioni, ma solo una sorta di flusso libero di ricordi e indagini esistenziali. I temi affrontati sono molteplici: primo fra tutti il lutto, ma anche l’amore, il mistero, il ricordo. Colpisce la presenza costante della ricerca: «Ti cerco» scrive l’autore, spesso e in diverse forme. Ma c’è anche la consapevolezza del distacco fisico e necessario dato dalla lontananza del nostro mondo, quello dei vivi, con quello dei morti. Ma questa dimensione sembra non fermare, spesso, il poeta. La forza che entra in gioco e che diventa fondamentale è il ricordo: forse è proprio questo che permette quel lavoro di cui parla Adriano Sansa nella sua introduzione: permette la «prosecuzione del lavoro svoltosi nel tempo della vita».

Capita che nella mente del poeta irrompa la perdita di ogni speranza. In una poesia l’autore scrive che: «Ti cerco nella nuvola di storni / e capisco di averti ormai perduta / se con gli altri tu evolvi nel cielo / dimentica di me». Ma la domanda resta, infatti il poeta si chiede «Ma io chi sono allora, e tu creatura / che vivesti con me la nostra vita?».

Quando avviene un lutto, ciò che permette di arrivare alla sua elaborazione, e ciò che continua a rimanere seppure magari in misura meno intensa e drammatica, è la domanda di senso: perché dobbiamo affrontare la morte? Dove si trova, ora, quella persona? Queste sono le domande che aleggiano per tutto il libro, con una delicatezza che forse appartiene solo ai poeti.

Pian piano che il lettore procede nel testo, e soprattutto già dall’inizio, capisce il perché del titolo «al di là dell’ombra». Un’ombra che può avere diversi significati: dal buio che segue una scomparsa, al mistero del dopo-morte. Una poesia in particolare ci parla questa dimensione a noi ignota: «Sapevamo / e come sapevamo della morte / che ci avrebbe divisi, eppure a lungo / fino a quell’ora estrema ci era parso / di stringerci la mano brevemente / sulla soglia del sonno». Il poeta usa queste due parole importantissime: «ora estrema» e «soglia». Le utilizza rispettivamente per due momenti della vita opposti: l’ora estrema è il momento della morte, o forse della malattia come episodio senza più ritorno; la «soglia del sonno» invece sembra indicare quel periodo di stasi e incertezza come lo è il sonno. Mentre questi due termini sembrano qui essere concettualmente opposti, riflettendoci possono parerci quasi sinonimi: possono indicare tutti e due periodi limite, tra la vita e la morte, sebbene l’«ora estrema» possa sembrare un momento molto più vicino alla morte di quanto non lo sia la «soglia». Quest’ultima può anche essere ritenuto un gesto da cui la persona può anche ritrarsi, senza andare oltre.

Quando accade di perdere un proprio caro, può succedere di pensare: come sarebbe se tornasse in vita? A partire da questa domanda, Sansa compone una poesia di rara potenza: «Se tu tornassi per un solo giorno / troveresti il tuo posto nella casa / e siederesti a tavola il silenzio / circondata dai volti della gioia». Segue il momento in cui l’amata deve però andarsene, tornare da dove è venuta. È questo il momento più drammatico di tutti, che se sognato non può che farci risvegliare piangendo: «s’aprirebbe di nuovo la distanza / dell’ultimo tuo istante quando parve / che tornassi al principio, da tua madre / e prima ancora al seme, forse a Dio». Questa poesia ci porta ad una dura riflessione: è vero che la morte crea le distanze, separa, riempie di nostalgia, ma rivedere un proprio defunto tornare per poi andarsene di nuovo è ancora più doloroso. L’unica strada percorribile sembra essere, almeno così pare essere per l’autore, non quindi il defunto che torna sulla terra, bensì chi resta in vita e procede verso il mondo dei morti. Questa prospettiva, in una poesia, assume una valenza totalmente positiva e profondamente desiderata: «Non c’è luogo / più felice nel mondo, là potremmo / indugiare nel tempo o nel non tempo / purché sia quello che non ha più fine». Ecco che glorificato è il tempo che è «non tempo». Il tempo mortale è protagonista della poesia che subito segue alla precedente appena analizzata. «Bastò poco / per distrarsi un momento, e lui ti prese / d’improvviso, tenendoti in eterno».

Esiste un mezzo antico ed eternamente accessibile che permette di portare il passato nel presente: la fotografia. Di questa il poeta ci parla quando scrive: «Siete fermi così, salvi nel tempo / ma separati da un vetro feroce / in cieli inaccessibili per sempre»: la morte, in ogni caso, torna sempre prepotente. Sembra inconsolabile e disperante questa distanza, ma poi troviamo dei piccoli squarci di speranza che subito ci colpiscono. Accadono soprattutto nella notte, quando «mi tocca / da vicino il tuo volto, il tuo sorriso / bianco contro la tenebra, mi guardi / e ti ricambio». Anche se, alla fine, «Domani / sarai di nuovo nel diverso regno / dove invano ritento di afferrarti», è come se l’autore, e insieme il lettore, sia certo che poi in qualche modo di notte tornerà la sua figura a tormentarlo (in senso positivo). Torna questa dimensione in bilico tra il sogno e la realtà, anche in un’altra poesia: “D’improvviso lo senso, tu sei qui / nella mia notte, […]. / È stato un lampo, ma tu mi guardavi / e mi amavi di nuovo dolcemente / toccandomi la fronte proprio dove / mio padre mi baciava nei congedi”. È questa la dimensione più forte e positiva che regge l’urto dell’assenza, l’urto prodotto dal dolore della morte. Anche se sembra un’illusione, quando poco prima della fine del libro Sansa scrive questi versi struggenti: “Che strano, il tuo non essere è più forte / d’ogni altra apparenza, d’ogni cosa / che mi compare intorno e mi costringe / a trattenermi ancora”. Le apparenze sono proprio quei sogni, quelle visioni oniriche, che forse non sono illusioni ma ombre che intendono svelarci una vita dopo la morte.

Caterina Golia

 
 
 
 
È così poca cosa il paradiso
collocato in un cielo che non parla
e rare volte, oramai, nell’idillio
somiglia all’infinito, gli universi
sono freddi e distanti, vanno in corsa
più lontani da noi, di giorno in giorno.
Tu sola mi bastavi, quando a sera
mi alleviavi l’incendio dell’estate
col tiepido del braccio, mi stringevi
ma non per trattenermi, rispondevi
così alla mia domanda, solo allora
ti confermavo, non mancava nulla.
 
 
 
 
 
 
Nel regno delle ombre quanta luce
all’ora del tuo arrivo, ti portavi
l’infanzia intatta il pianto della madre
l’amore palpitante nel segreto.
Hai preso posto dove tu speravi
tra l’ultimo dei piccoli e tuo padre.
Non so se aspetti, temo che tu possa
dimenticarmi nel tuo paradiso.
 
 
 
 
 
 
Che strano, il tuo non essere è più forte
d’ogni altra apparenza, d’ogni cosa
che mi compare intorno e mi costringe
a trattenermi ancora. Poi divieni
a momenti quel giudice supremo
che non volevi essere o d’un tratto
di nuovo la ragazza che volgeva
il viso contro il vento e sorrideva
come sfidando allegramente il tempo
che stavamo vivendo. Mi stringevi
con forza in quei momenti e ti confido
che ti voglio così, di notte, ancora.