Accenni sulla metrica barbara e le trasposizioni

Accenni sulla metrica barbara e le trasposizioni

Poiché ritengo operazione interessante e utile reinterpretare i metri classici, nonostante la barbarie dell’operazione per l’occhio avvezzo alla prosodia greco-latina, e, in particolare, poiché rielaborare e mettere in discussione le idee dei Maestri in tal senso può rivelarsi utile e prezioso (a volte, e senza esagerare), introdurrò nei prossimi interventi alcune idee su come rendere in versi italiani alcuni schemi metrici trasposti dal metro latino e greco.

La prima riflessione che ho maturato da questa esperienza è stata quella di utilizzare la trasposizione dei piedi classici come unità di misura ritmica dei versi e, in generale, del dettato poetico, dando assoluta legittimità anche a versi non canonici, pur rispettando uno o più andamenti dati dalla combinazione di tali piedi.

A mio modestissimo avviso, non tutti i piedi della metrica classica hanno un senso nella nostra metrica accentuativa, soprattutto quando si evidenziano le differenze tra sillabe brevi e lunghe (nei versi originali).

Credo che gli unici di essi che rilevano nell’applicazione ai ritmi dei nostri versi, e di conseguenza, alla conversione dei metri classici che ne derivano, siano:

 

  • il GIAMBO (U– = atona, tonica)

 

  • il TROCHEO (–U = tonica, atona)

 

  • il DATTILO (–UU = tonica, due atone)

 

  • l’ANAPESTO (UU– = due atone, una tonica)

 

  • l’ANFIBRACO (U–U = una tonica tra due atone)

 

Gli altri piedi, soprattutto quelli di quattro sillabe, trovano poco senso in una lingua dove rare (e pesanti) sarebbero le costanti presenze di tre sillabe atone in “piedi” ripetuti, così come la presenza costante di contraccenti consecutivi; è inoltre vero che tali piedi, qualora vi fossero più toniche non prossime (ad es. il coriambo, –UU–), risulterebbero dalla combinazione di più piedi semplici (nel qual caso, un trocheo e un giambo,  –U || U–).

Un ulteriore accenno merita la “trasposizione” di forme poetiche appartenenti ad altre prosodie in quella italiana (come la strofa saffica ed alcaica, il distico e il carme elegiaco dattilico, l’ode pindarica, e via dicendo).

Nell’adattare tali forme alla prosodia italiana si può procedere in diversi modi: leggendo, ad esempio, in lingua originale i versi stranieri, riconoscendone il ritmo e gli schemi accentuativi, e operando delle trasposizioni in schemi accentuativi domestici (con alternanza di toniche e atone).

Tale operazione è tanto più complessa quanto più differente è la lingua cui appartiene la forma che si intende adattare (e la sua prosodia, soprattutto se non accentuativa), fino al punto di rendere estremamente innaturale, o impossibile, l’operazione (esistono lingue senza accenti, o troppo diverse dalla nostra).

Ciò nonostante, è possibile arrivare a notevoli punti di contatto con altre forme, fino al punto in cui, leggendo versi nella lingua originale e nella lingua italiana, è possibile riscontrare lo stesso ritmo ed andamento.

Facciamo un esempio: nella poesia spagnola, la seguidilla arromanzada è una strofa di quattro versi, dove il primo ed il terzo sono due heptasìlabos sciolti, ed il secondo ed il quarto sono due pentasìlabos, con rima asonante:

 

Sombrerito de hule

lleva el mozuelo,

y la pelegrinita,

de terciopelo.

 

Al pasar por el puente

de la Victoria,

tropezó la madrina,

cayó la novia.

 

Han llegado a palacio,

suben arriba,

y en la sala del Papa

los desaniman.

 

Federico García Lorca, “Los peregrinos”

 

Una forma del genere può essere trasposta in italiano con strofe di settenari e quinari piani alternati, con 2° e 4° verso assonanti.

 

Mario Famularo