Tutto recava il segno del necessario e del provvisorio – Giorgia Esposito

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In quale pozzo fu benedetto, gli chiedo
sfiorando con paura l’assenza del mito,
il non approdo in cui si inarcò il vagito.
 
Per le lunghe scale è l’eco la dimora
dell’orco, e più su la campana cinerina
dell’infanzia, l’odore acre del limone –
incredibile credersi salvi.
 
Tu respingi le due braccia tese
nello sforzo di separare i lembi.
Tu vuoi l’intero nella crepa.
 
 
 
 
 
 
Un’ombra si staglia sul muro,
una faccia di donna. Ricompongo i segni.
Le voci fremono nelle case e nei vichi
mentre i gatti scivolano sotto le auto.
Nella notte la presenza è percezione.
Un vecchio è al buio con la tv accesa,
guarda la strada, mi incrocia, fissa
la madonna luminosa ai piedi della notte.
Sono dappertutto gli occhi dei perduti.
 
 
 
 
 
 
Non avevamo altra scelta:
chiudere la porta, cambiare
case e serrature; tutto recava il segno
del necessario e del provvisorio.
“Hai reso l’abitudine precaria”.
 
Le accuse si alternavano a follie
d’attaccamento: “sei tutto quello che ho
e sei la ragione per cui ho perso il resto”.
 
Non solo un’alleanza sanguigna
o un gioco di posizione,
noi ci siamo congiunte nel distacco
di un padre; e tu ne avevi coscienza:
“vedrai che saremo meno sole, da sole”.
Tutto si separa nella giusta direzione.
 
(Giorgia Esposito, Smarginature, Lietocolle-Pordenonelegge, 2020)
 
 

La parola di Giorgia Esposito espone una particolare propensione a mostrare l’esistente nel suo evadere dai margini, nel mostrare la provvisorietà e la fragilità dell’essenza dei fenomeni e, allo stesso tempo, nell’evidenziare che tale caratteristica è elemento essenziale e pervasivo del reale: attraverso l’assenza e la mancanza di una realtà ormai appartenente al passato, o in ogni caso “sfuggente”, si individua “il segno del necessario” e la “giusta direzione” verso cui ogni cosa si dispone, con una certa fiducia verso una tendenza a un “ordine naturale delle cose”.

Già il primo testo suggerisce una “assenza del mito” sfiorata “con paura” in un “non approdo”: tra i profumi e i ricordi di un’infanzia lontana, indagare il presente è un viaggiare senza arrivare a un porto, è “lunghe scale” che sfumano nell’eco – termine che allude alla rarefazione, all’indefinito – “dimora dell’orco”, a conferma di una trasfigurazione in un oltre abissale, in cui è difficile “credersi salvi”. E senza salvezze né certezze il “tu” del testo respinge “le due braccia tese”, cerca di fare chiarezza “nello sforzo di separare i lembi”, desiderando una possibilità di senso e di significato nella contraddizione, una promessa di soddisfazione e di gratificazione pur nella precarietà: “l’intero nella crepa”.

Tale dimensione, introiettata nell’io del testo, nei versi successivi viene estesa e universalizzata ad ogni uomo, ad ogni essere vivente, i cui segni si tenta di ricomporre: tra “voci (che) fremono nelle case” e “gatti (che) scivolano sotto le auto” la presenza di ogni forma di vita, compresa quelle minime e più nascoste, diventa “nella notte … percezione”. L’uomo anziano che di notte “guarda la strada” e “incrocia” lo sguardo dell’io narrante, lo ricolloca dalla dimensione di “osservante” a quella di “osservato” – un’ulteriore confusione dei margini che porta ad una consapevolezza ulteriore: “sono dappertutto gli occhi dei perduti” – non sono soltanto quelli di chi vive il senso di perdizione e di smarrimento dei riferimenti, ma anche quelli di chi ne osserva lo svolgersi, di chi ne riconosce la traccia nell’altro-da-sé, realizzando una connessione attraverso la consapevolezza della mancanza.

Nel testo conclusivo, attraverso un dialogo (da quel che appare dal testo con un familiare, probabilmente la madre) si ribadisce la persistenza della transitorietà di ogni riferimento (“cambiare / case e serrature”) fino ad affermare che “tutto recava il segno / del necessario e del provvisorio”, come a dire che la fragilità e la temporaneità di ogni fenomeno non solo è caratteristica naturale ed innata degli stessi, ma è anche indispensabile per ricavarne una possibilità di significato e di contatto umano: “noi ci siamo congiunte nel distacco / di un padre”: attraverso la circostanza narrativa, quello che si sottolinea è l’occasione di avvicinamento tra chi si riconosce nella medesima assenza, nella percezione comune della mancanza; e il sapere abbandonare il timore dello svanire, accogliendo la natura dei fenomeni e dei rapporti nella loro imperfezione e apparente contraddittorietà, consente di poter dire “vedrai che saremo meno sole, da sole” – come se le stesse solitudini, vissute insieme, si sommassero; subito dopo, con una chiusa luminosa, la Esposito evidenzia che “tutto si separa nella giusta direzione”, in quella che suona come una dichiarazione di fiducia verso un ordine naturale del mondo, che, attraverso l’esperire di sofferenze, perdite, lacerazioni di senso e di relazioni, è in grado di comporre, infine, i mille frammenti apparentemente irrelati in uno schema armonioso e pacificante: “l’intero nella crepa”.

Mario Famularo