42 voci per la pace – MirellaCultura

COPERTINA 42 voci per la pace

Dedicato a Chi / non c’è più / e a Chi lotta per / continuare ad esserci. Con questa affermazione scarna eppure emblematica si apre 42 voci per la pace (Nomos Edizioni, 2015), un particolarissimo libro edito con Pontedilegno MirellaCultura per ricordare il centenario della Grande Guerra in un contesto dove la stessa viene ancora raccontata col nome di guerra bianca, e dove ancora si racconta del disastroso incendio del 27 settembre 2017 a Ponte di Legno, oggi rinomata località turistica.

È il prefatore Eugenio Fontana che spiega le motivazioni del libro e della sua composizione: L’idea è di celebrare i cento anni della Prima Guerra Mondiale – di quella guerra che ha conosciuto qui sulle nostre montagne adamelline il più alto fronte d’Europa – che ha visto svolgersi, in condizioni quasi impossibili, sicuramente proibitive, battaglie segnate dalla doppia sfida contro la natura e contro il nemico, che ha registrato il coraggio e l’ardimento dei comandanti e dei semplici soldati-alpini, che ha reso leggendari i nomi di conca Presena, del Lagoscuro, del Cavento, delle Lobbie, che ha ferito nel profondo della propria anima e civiltà Ponte di Legno bombardandola e incendiandola il 27 settembre 1917; ebbene Ponte di Legno o, più esattamente MirellaCultura, ha scelto una forma davvero originale, unica e coraggiosa per celebrare il centenario: affidare alla poesia, secondo le modalità che le sono proprie, il compito di riaccendere e tener viva la memoria di quegli avvenimenti lontani, dentro contesti di speranza. Detto ciò, il lettore di questa raccolta di poesie non si aspetti riferimenti precisi, storici, circostanziati. Il poeta non è uno storico. Non tocca a lui descrivere i fatti, gli eventi, i giorni della tempesta e i giorni dell’assalto. Il poeta deve rievocare un’atmosfera, far vibrare le corde dell’animo, aprire la mente ad orizzonti vastissimi capaci di varcare le frontiere del tempo e dello spazio. E tutti i poeti che hanno raccolto l’invito, sono, pur nel rispetto della loro personalità che si fa linguaggio irripetibile, uniti da un filo rosso che attraversa le loro composizioni e batte sui loro versi come la luce batte sui muri sgretolati delle nostre esistenze perdute.

Di seguito il presidente dell’associazione MirellaCultura integra il contesto attorno al libro spiegando: Questo libro discende direttamente da “PontedilegnoPoesia”, il Premio Nazionale di Poesia edita che MirellaCultura organizza dal 2010. In questi anni, il nostro è diventato – o comunque ambisce a diventare – “il paese della poesia”, come dimostrano i Totem disseminati lungo le sue strade. Ognuno di questi Totem contiene versi dedicati ad un elemento caratterizzante di questa zona: l’acqua, la neve, la pietra, il vento. Quando si è trattato di scegliere il tema per il Totem 2015, siamo stati condizionati dal Centenario della Grande Guerra, che noi conosciamo soprattutto come Guerra Bianca perché i soldati italiani e austriaci la combatterono in condizioni estreme, al gelo dell’alta quota, nei settori operativi di Ortles-Cevedale e Adamello-Presanella. Quella guerra ha lasciato tracce profonde su Ponte di Legno e la sua popolazione, in particolare per l’incendio del 27 settembre 1917, appiccato dalle truppe austriache come rappresaglia ai bombardamenti italiani. Per ricordare il Centenario della Guerra abbiamo pensato di dedicare il Totem al tema della Pace, che è (o dovrebbe essere) una speranza di tutti noi. Sia la Pace con la lettera maiuscola, quella che viene “gestita” dai potenti della Terra, sia quella che cerchiamo personalmente tutti i giorni e che può essere rappresentata da qualche periodo di vacanza. E Ponte di Legno, con il passare degli anni, è diventato un centro turistico di primaria importanza, dove la vacanza assume un particolare significato. Dal Totem al libro, il passo è stato breve.

Un’operazione questa, poi concretizzata da quell’ottimo Editore che è Nomos (di lui in questo blog ho già parlato in riferimento ad altre sue pubblicazioni), che ha il suo punto di forza nell’utilizzo e nella definizione di Poesia in questo specifico contesto. Una Poesia che non è testimonianza storica ma rievocazione dei sentimenti, delle sensazioni, degli stati d’animo e delle disperazioni quando non delle speranze. Dice infatti benissimo Fontana che il poeta non è uno storico. Non tocca a lui descrivere i fatti, gli eventi, i giorni della tempesta e i giorni dell’assalto. Il poeta deve rievocare un’atmosfera, far vibrare le corde dell’animo, aprire la mente ad orizzonti vastissimi capaci di varcare le frontiere del tempo e dello spazio. Un poeta che si trova quindi ad essere figura privilegiata perchè capace di cogliere le informazioni storiche immergendole nel presente, creando un filo di continuità dove la guerra bianca si fa semplice pretesto per parlare dei drammi contemporanei, dell’ansia e della paura e della speranza della pace. Un poeta che ha la licenza di sfumare i confini temporali in un verso che non è più del 1915 (Solo la neve sa custodire il silenzio / nella luce abbagliante / il grande bianco di sole e nebbia / taciute le mitragliatrici / e gli obici su questi costoni – Amedeo Anelli), non è più del 2015 (Pietà, Signore, di tutte le donne / di Quiniyeh, di Hardan, Khocho e Jadala, / da un giorno all’altro private dei mariti, / vedove dolorose e senza pane, / catturate e vendute come schiave – Emilio Coco), ma deriva e resta in quella parte priva di tempo che è il cuore umano. E che giustifica e spiega quella dedica iniziale: Dedicato a Chi / non c’è più / e a Chi lotta per / continuare ad esserci.

Un cuore, quello degli uomini, quello testimoniato dai poeti, che combatte e che è capace delle bassezze più infami (quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto – Flaminia Cruciani) ma che ritorna puntualmente ed ossessivamente a chiedere la pace ( Lo senti? / com’è bello fare la pace col vento? – Lino Angiuli), ponendo quasi la questione su quale parte del cuore sia capace di così tanta guerra tanto da averne storicamente bisogno se è poi il cuore stesso a chiedere la pace. Ma forse questa è una di quelle difettosità della giocosa macchina umana che troppo presto si adatta e si annoia della pace per poi invocarla quando la perde (ma avevamo dentro una voglia di gioia / lasciarci alle spalle ogni dolore vissuto, / il volersi bene, sognarsi un dio in gloria / e bere la vita come fosse champagne – Franco Loi).

Ed è forse solo una felice coincidenza (anche se in questo contesto il termine felice assume un connotato ben amaro) che la guerra bianca di Ponte di Legno, oggi occasione per riunire 42 voci poetiche a ricordo e riflessione del dolore che emerge quando l’uomo vuole uccidere l’uomo, sia il medesimo colore che nell’immaginario comune dedichiamo alla pace, alla colomba della pace. Una colomba che come nella poesia non ha più riferimenti al Dio sovrumano ma incarna la religiosità terrena di chi si deve appellare all’uomo-utopia quand’esso assomiglia più a una bestia (ora compare per metà busto e sembra vivo, / si sbraccia e ci parla di umanità. / Non era così Cristo portatore di pace? – Alberto Toni). Quell’utopia laicamente religiosa che è anelito di pace e che è la stessa speranza di Dostoevski ripresa da Fontana in prefazione: La bellezza salverà il mondo.

Un volume da leggere come un monito, come un momento di riflessione sulla natura umana e le sue molteplici e contraddittorie sfumature. 42 poeti che bene fanno sentire cos’è la guerra: un enorme bisogno di pace.

 
 
42 voci per la pace

di Franco Loi, Amedeo Anelli, Lino Angiuli, Rosario Aveni, Donatella Bisutti, Sandro Boccardi, Marisa Brecciaroli, Tiziano Broggiato, Luigi Cannillo, Maddalena Capalbi, Anna Maria Carpi, Emilio Coco, Gabriella Coletti, Rosa Maria Corti, Flaminia Cruciani, Annita Di Mineo, Curzia Ferrari, Laura Garavaglia, Gianni Gasparini, Graziano Gismondi, Giuseppe Grattacaso, Franca Grisoni, Eloisa Guarracino, Vincenzo Guarracino, Tomaso Kemeny, Giuseppe Langella, Gianpaolo G. Mastropasqua, Matteo Munaretto, Meeten Nasr, Alessandra Paganardi, Fabio Pusterla, Alessandro Quattrone, Alessandro Rivali, Mario Rondi, Pierangela Rossi, Fabio Scotto, Ambra Simeone, Fausta Squatriti, Alberto Toni, Alfredo Tradigo, Adam Vaccaro, Silvia Venuti.

 
 
 
 

Se vardi el mund

 
Se vardi el mund, ven sü un olter mund…
uh quanti mort! quant’àrbur ch’àn s’cincâ!
câ növ, alter culur del mar, e altra gent,
e facc che rìdd, ch’j canta, e tanta vöja
de vèss fradèj al mund… Ah mì nel vent!
mì che sun pü mì, aria che rìdd la föja
e tütt me gira inturna malament…
Sé gh’era d’inscì bèll ne la memoria?
Mancava el pan, mancava el vulavent,
rübaum legna per scaldàss la storia
di mort in strada, di nost amîs massâ,
ma gh’evum dent’na vöja de baldoria
lassàs aj spall el dulur passâ,
el vurèss ben, sugnass un diu in gloria
e bév la vita’me füdèss champagn.

 
 
 
 

Se guardo il mondo

 
Se guardo il mondo, emerge un altro mondo…
uh quanti morti! quanti alberi hanno troncato!
case nuove, altri colori del mare, e altra gente,
e facce pallide che ridono, che cantano, e tanta voglia
di essere fratelli al mondo… Ah io nel vento!
io che non sono più io, aria che ride la foglia
e tutto mi gira intorno malamente…
Cosa c’era di così bello nella memoria?
Mancava il pane, mancavano le comodità,
rubavamo la legna per lenire la storia
dei morti in strada, dei nostri amici uccisi,
ma avevamo dentro una voglia di gioia
lasciarci alle spalle ogni dolore vissuto,
il volersi bene, sognarsi un dio in gloria
e bere la vita come fosse champagne.
 
Franco Loi

 
 
 
 
 
 

Solo la neve sa custodire il silenzio
nella luce abbagliante
il grande bianco di sole e nebbia
taciute le mitragliatrici
e gli obici su questi costoni
in questi scavi in interiore homine
solo luce nebbia e silenzio.

Solo la neve sa trattenere la pace ed il ricordo
ed i nutrimenti della terra viva di stagioni
e di corpi vivi di terrori e di affetti.

Ponte di Legno, dicembre 2014
 

Amedeo Anelli

 
 
 
 
 
 

Ban

 
BIANCO SI DICE ban
in gaelico, la lingua dei miei avi,
gli irlandesi,
quieti e fedeli a Cristo sullo Shannon.
Si tramanda di uno, nono secolo –
un vecchio, un monaco:
è comoda la cella e i manoscritti abbondano
e per compagno ha un gatto, il bianco Pangur,
che sta seduto a una certa distanza,
lo sguardo fisso a un punto:
“Ban, cosa vedi? perché fai le fusa?
Tu vedi Dio, è vero?
Io dovrò aspettare,
per fortuna ho da leggere”.
Solo di tanto in tanto alza la testa
soprapensiero il vecchio
e si guarda le mani,
poi intinge la penna e va sul margine
del sacro testo:
ha trovato da aggiungervi qualcosa.
Se gli cade una macchia,
frega col dito per mandarla via,
ma poi alza le spalle:
“Diglielo, Ban,
anche la macchia viene da lui”.

 
Nota dell’Autrice:
questa poesia, che congiunge l’innocenza animale con la speranza cristiana, è un sogno o un’ipotesi di pace per il nostro angosciato Sé di questi tempi.

 
Anna Maria Carpi

 
 
 
 
 
 

La pistola puntata in testa
mi chiedi di non guardarti in faccia
abbiamo scherzato
come il signore col servo.
Allora Tu sei sempre stata i miei occhi condannati
come una coda di cometa
e mentre mi inginocchio,
guardo il bracciolo della poltrona, penso
quanto ci metterò a tornare alla mia tenda con un colpo solo?
Coriandoli di carne come papaveri sul pavimento
la pace sarà radunata nella fortezza delle mie ossa
dispersa come sabbia in un numero di luce
e ogni cosa sarà posata in me.
Saprò il giorno tagliato d’invisibile
procurami un angelo per il mio grembo rotondo.
Poi penso a quel volto incappucciato come a un uomo
a lui che grida appena nato in braccio a sua madre
è la vendemmia dei girasoli all’inferno
il perdono è avverare l’aria.
In armature di padre in figlio
quello che è male ai tuoi occhi io l’ho fatto.

 
Flaminia Cruciani

 
 
 
 
 
 

10 giugno 1940

 
La radio era una grande rana scura
che gracchiava la storia. Tu ascoltavi
le sue pause, i silenzi, la mattina
di quella primavera senza estate.

Immaginavi il dito alzato, il sopracciglio
di paura, erano tutti fuori –
uomini ad inventare cieli accesi,
bambini che giocavano ai soldati.

Tu comperavi uova, riso e pane
donna che non sapevi buio e strade
e all’improvviso erano tutti spenti
come in un film veloce senza voce.

Ti sembrava la foto color sabbia
di quel vecchio raduno di coscritti
dove ogni anno c’era un volto di meno
e un sorriso più altrove.

Ti sembrava una montagna ferita
dalle cave, il brutto odore di quel marmo
strappato alla sua pancia per calare
piccoli blocchi freddi. La stagione
correva, non potevi più fermarla
come le bianche barche di cartone
nel canale da piccola.
          Guardarle
passare il ponte e perderle di vista,
chiederti dove andassero a finire –
averle costruite solamente
per non saperlo mai.

 
Alessandra Paganardi

 
 
 
 
 
 

I

 
Iris Argeman di porpora, fitto viola
sulle Iture quasi deserte come un papavero
in lacrime in fuga, e lontano lampeggia il corso
lentissimo del Giordano, da lago
verso lago, da mar morto a mar morto, lontano
lingue di fuoco e muri chiudono i territori
feriti, in una bolla d’esclusione; Ciascuno
conta i suoi morti qui,
le sue vergogne.
 
 
 
 

II

 
Ma queste sabbie, le piste
Tra rocce antiche e perduti santuari,
i rivoli d’acqua che cercano uno sfogo e colano
da altezze modeste a modeste bassure.
con l’umiltà del dattero e della capra.
della pietra e dell’asino,
caparbie nel trovare
angusta una via più semplice per crescere,
un destino…
 

Fabio Pusterla

 
 
 
 
 
 

Il fiume scende
d’acqua e sangue
corpi ammassati
di lager e trincea
Il secolo breve ha prodotto scorie
nelle menti malate dei suoi satrapi
cose che capitano
cose che decapitano
Ora altri dèi ciechi
incappucciati annunciano al mondo
nuove palingenesi
brandendo il coltello o la mannaia
(esplodono nei mercati,
come mortaretti,
le ragazzine-bomba tra i carretti…)

Ma pace vuol dire
a contro-morte sempre
Vedere sé nell’altro e riconoscersi
Eppure il morbo insiste ovunque,
oscura peste,
da Orano ad oggi,
acceca i cuori e reca nuova morte

Sia la cometa
che s’alza dai campi dilaniati
il ramo che un bimbo porge
ad una stella

 
Fabio Scotto

 
 
 
 
 
 

Nell’inverno di guerra

                               Ora, giorno dopo giorno si sta avvicinando l’inverno
                              e avrò tante memorie

                              M. Rigoni Stern

 

Saliva verso il cielo il soldato
una mano in basso l’altra come a riparo,
il non vedere, non essere altro che volontà
di farcela, puntare ancora i piedi, non cadere
o altro che nella mente si fa strada, punge,
raccoglie le sue forze, il saluto non è perfetto
e potrebbe anche rischiare una punizione.

Sale, ché il vento è bianco nell’inverno
di guerra, e tutto il richiamo, ai suoi di casa
è spina e condizione del presagio.

Cerchiamolo qui a distanza di un secolo
di giorno in giorno dei nostri cari scomparsi,
mai traditi nel breve volgere del tempo.

Andiamo per una volta all’incontro senza
offesa, siamo obbligati a non congedarci
così in fretta dalla nostra storia. Guardalo:

ora compare per metà busto e sembra vivo,
si sbraccia e ci parla di umanità.
Non era così Cristo portatore di pace?
 

Alberto Toni