Voglio così come il sorbo tra i larici e gli abeti coprirmi di infinita neve – Roberta Dapunt

Voglio così come il sorbo tra i larici e gli abeti coprirmi di infinita neve - Roberta Dapunt

 
 
Proteggimi dal dimenticare, proteggimi dal non sapere,
dal non aver sentito, ascoltato, visto, guardato.
Favorisci in me il pensiero, non sia mai ferito.
Possa lo spazio che ho dentro la testa essere scontento,
perché troppo vuoto anche nell’ultimo giorno.
 
Proteggimi dalle camere buie, dall’ordine perfetto
         nella mente,
niente passi oltre queste mie pareti, tutto m’irrompa.
Siano gli occhi e le orecchie il varco tra me e l’esterno,
rimangano le infelici domande e le risposte.
La volontà mi sia stendardo.
 
Riparami dal nulla, difendimi dal non essere,
meglio la morte. Meglio la morte.
 
 
 
 
 
 
Voglio così come il sorbo tra i larici e gli abeti
coprirmi di infinita neve. Di bianche coltri
l’abbraccio, chiusa irreparabile del freddo ragionare.
Spalancare le labbra e lasciarmi nevicare
lì in fondo alla bocca, infelice incontrarmi
e sciogliersi fiocco dopo fiocco fino a congelare
ed infine raccogliersi, riempirmi.
 
Mi voglio velare, voglio piano tacere. Sottrarmi
candidamente al complicato uso della voce.
Crescere, innevarsi il mio interno stare come fuori
          sto ferma.
Voglio immacolarmi. Per sempre zittire,
interrompermi e tacere. Seppellirmi dentro
e intorpidire per sempre la facoltà del solo parlare.
 
 
 
 
 
 
Ho la neve dentro, ghiacciate le membra e la morte,
essa mi dorme intorno, indifferente
e non comprende il freddo. Non lo sente.
 
 
 
 
 
 
Mai vedremo oltre. Ma tu la rugiada negli occhi.
Rendi libero il corpo in mezzo ai fiori raccolti nell’orto.
Non sono le frasi di conforto, non loro a sostenere,
non sono le preghiere, non loro a persuadere.
 
 
(Roberta Dapunt, Le beatitudini della malattia, Einaudi, 2013)
 
 

In questi testi, Roberta Dapunt celebra, sotto forma di preghiera laica, una vitalità autentica, travolta dall’essere, che attraverso i sensi è in grado di irrompere e farsi esperienza – diventando bagaglio esistenziale – nutrito da una costante curiosità, chiave d’accesso al mistero della natura e del mondo, e in netto contrasto con l’insufficienza delle parole, della “frase”, della preghiera di circostanza che non riesce a tradursi in immolazione viscerale, carnale.

Già il primo testo rievoca una supplica, un’implorazione al divino, con una serie di verbi tipici del sacro (“proteggimi” per ben due volte, poi “favorisci”, “riparami”, “difendimi”). Quali i mali da cui i versi augurano protezione? Il “dimenticare”, il “non sapere”, il “non aver sentito, ascoltato, visto, guardato”; il desiderio poi è rivolto alla possibilità di pensare, al punto di arrivare a chiedere una costante insoddisfazione (“rimangano le infelici domande”), che continui a stimolare la curiosità fino all’ “ultimo giorno”. Non un “ordine perfetto / nella mente”, dunque, ma un continuo irrompere del “tutto” attraverso i sensi (“siano gli occhi e le orecchie il varco tra me e l’esterno”).

L’auspicio è che “La volontà mi sia stendardo”, in quanto significante e motore di vitalità creaturale, in contrasto con il non essere, il nulla – in confronto al quale è “meglio la morte” – proprio perché incosciente: il male peggiore appare dunque una lucida consapevolezza di assenza di vitalità, del “non essere”.

Nel testo successivo, la natura diventa veicolo di questo invocato irrompere dell’esperienza nella realtà percettiva dell’esistere: anche se l’immagine tratteggiata, apparentemente, sembra di annichilimento e annientamento, è di un “abbraccio” che si parla, capace di riparare “dal freddo ragionare”: un freddo naturale e autentico, sensibile, contro un freddo razionale e astratto, concettuale e più letale.

Questo “riempirsi” di neve nelle labbra spalancate, completamente accoglienti, porta al silenzio, a un “piano tacere”, allontanandosi dal “complicato uso della voce”, in un crescendo di predicati (“crescere … immacolarmi … zittire / interrompermi e tacere. Seppellirmi dentro”), riuscendo infine a “intorpidire per sempre la facoltà del solo parlare”.

È ancora più evidente in questi versi la priorità di un’esperienza sensibile, di una vitalità diretta, non mediata dalla sofisticazione della parola e della ragione, che anzi, una volta messa da parte, consente una più autentica unione con la realtà più intima dell’essere.

Il testo immediatamente successivo conferma quanto detto, con mirabile capacità di sintesi: “ho la neve dentro”, comincia la Dapunt, per poi realizzare un confronto diretto tra il corpo sensibile, protagonista che avverte le membra “ghiacciate”, e la morte, che “dorme intorno, indifferente”, perché “non comprende il freddo”: non può (per quanto sia comune associare la morte al freddo), semplicemente perché “non lo sente”.

Così persino essere invasi dall’irruzione del gelo diventa una celebrazione del sentire che sovverte, “irrompe” – in opposizione alla morte e al non essere, che non può nemmeno comprendere cosa significhi “sentire” (seguendo la personificazione tratteggiata nei versi).

Nell’ultimo testo, l’autrice ribadisce che il vedere appartiene al corpo e all’esperienza corporale: “Mai vedremo oltre”; “la rugiada negli occhi”, subito dopo, si staglia come il simbolo gioioso (quasi sacro) di quella congiunzione autentica e piena del corpo, “libero … in mezzo ai fiori”, con la natura, l’essere e il mondo già esaminata; successivamente, si enfatizza di nuovo come non sia la mera parola o il rituale razionalmente e pedissequamente celebrato – senza che sia intimamente vissuto nella carne e nel sangue – a convincere, sostenere e consentire un’ipotesi di conforto, una prospettiva pacificante o persino di salvezza: “non sono le frasi di conforto … a sostenere / non sono le preghiere … a persuadere”, ma è viverle, in silenziosa auscultazione – esserle, in sacrale intimità con il mondo.

 

Mario Famularo