Una fame chiara – Paolo Polvani

polvani

Ho letto veramente con grandissimo piacere questo libro di Paolo Polvani, Una fame chiara (Terra d’Ulivi 2014), edito da un caro amico che non vedo da molti anni: Elio Scarciglia. Al tempo ricordo (si era nel 2007?) lavoravamo ai versi di un’altra grandissima poetessa, Claudia Ruggeri, e anche a qualcosa di mio. Elio ha quindi continuato il percorso di questa bella Casa Editrice che sa ben osservare e scegliere con accuratezza le voci più nitide, più pulite, e proporle in maniera precisa.

Paolo Polvani è sicuramente una punta all’intero delle pubblicazioni di Terra d’Ulivi. Un poeta, Paolo, consapevole della propria voce ma senza ostentazione, senza celebrazione. Non c’è infatti un solo verso in tutto il libro che non segua una regola non detta né scritta ma palpabile, percepibile quasi quanto certa carnalità dei versi ( Tu sei quella nuda sul lenzuolo, la tua pelle / è un verbo all’infinito. Tu / sei l’allegria che ride e qui sei nuda / e buona, e io con te non sono uno, / divento le città, gli alberi / del tuo giardino entrano nella mia voce), che vuole la misura come punto di riferimento del verso e della voce. Non ci sono grida, non c’è disperazione, perfino la felicità (molto presente) è mitigata in un sorriso, come anche la passione erotica (Il tuo vestitino leggero e mutandine colorate / fanno crescere in me la precisione dell’amanuense, / un desiderio di conoscenze, di esattezze, / voglio capire tutto, di tutto finalmente / senza omissioni essere edotto, niente / lasciato al caso, niente di trascurato, / ma tutto, tutto indagato, approfondito, inventariato – o ancora il bellissimo: Ti sfilerò il vestitino coi disegnini di farfalle, ti guarderò / nelle mutande da bambina, ranocchia infreddolita. / Avrai ginocchia bianche, braccia magre).

Una fame chiara più che un libro di poesia è un lungo dialogo sottovoce con un tu onnipresente, motivo del verso ma non solo, anche vicinanza, compagnia (Spesso io e te mangiamo soli, la televisione / è spenta in base a una precisa normativa / familiare. A volte si allungano i silenzi. / Ma il desiderio di farti ridere, baluardo estremo / dell’adolescenza, è intatto, somiglia / alla quotidiana scoperta che la tua bellezza / è ancora un lampo doloroso, la vertigine / di un panorama cui affacciarsi). In questo tu le poesie di Paolo Polvani acquisiscono (o ritrovano?) una chiarezza intrinseca, una capacità di equilibrio che non nega l’esistenza della fame ma anzi la riconosce, la esamina. Una fame che non soffoca chi la prova ma gli dà modo di esistere e di continuare a riflettere e parlare (Sì, la tua voce è un passero, mi tempesta qui, / col suo piccolo becco arrochito dal mare, / qui dove il cuore perlustra gli uliveti, / insegue il sogno dell’erba docile, / a perdifiato, come a perdifiato la tua voce / corre incontro alla mia fame). Un dialogo buono che non manca di colpire e di far riflettere, soprattutto per la sua continua (e squisita) aderenza a una realtà tutto sommato sensuale (l’unica, forse, realmente esistente: La legge gravitazionale nasce da quel semplice dischiudere / le labbra. Nei denti fiumi e foreste. La lingua / è un viaggio di geografie veloci. / I capelli tengono un piccolo discorso e io dico sì / a bere il cielo dalle mani).

E il bilancio alla fine è positivo, se non felice almeno in armonia col tutto. Anche grazie alla poesia. Perchè anche se non troveremo il tuo seno sinistro all’ufficio / oggetti smarriti, ora appartiene all’algebra dei baci che non furono, / a un nascondiglio di palpiti, al sottinteso di una palpebra chiusa. / Adesso so cosa vuol dire la tristezza. L’ho riconosciuta / dietro i tuoi occhiali, alla fine comunque confidiamo nella luna, nella gloria dei santi, nella / luminosità della poesia, nel linguaggio tortuoso della fame. E questo è già molto.

 
 
 
 
Caramelle

 
Verrò in via delle vigne quattordici a passarti
l’ultima delle mie caramelle, è lì che abita
in forma di zucchero l’orto di tua madre
e si gonfiano di rosso i pomodori nel cerchio
delle alpi e l’insalata
ha il suono familiare di una porta che sbatte.

Gli autunni vengono con passo leggero e io
mi arrampicherò sul tuo accento di montagna,
sulle gutturali che sono rocce aspre, su certe
consonanti che imitano il tumultuoso gorgoglio
dei torrenti. Le tue mani forse mi cercavano,
tentavano un approdo, ma tu lo sai
che il nostro sole è la solitudine
e la promessa di non vederci più
è già nei nostri passi.

L’ho visto il gatto, e quella lunga scia di tristezza.
Ho visto la fabbrica e la fretta dei viaggi.

Le mani si cercavano e ridevi di un riso
notturno e c’era la pioggia e il buio
e il momento era perfetto per perdersi,
per scivolare via come un addio.

 
 
 
 
 
 
Milano è un vestito blu

 
Milano è un vestito blu e la primavera
ti rovina tra i piedi.
Anche stavolta dio non è venuto, Sonia,
ma tu non lo sapevi
che perde il treno, manca gli appuntamenti
spesso ha un’aria smarrita e sta nei bar
senza risolversi.

Che idea cercarlo nella metropolitana.
Ti guardi le mani e tra le dita
non brillano formiche.

Dio potrebbe essere una melagrana, ma c’è
troppo rumore e si spaventa.

Ma forse ce l’avevi addosso, Sonia,
era quel blu, era Milano, era la primavera,
era il rimpianto
che pestava i piedi.

 
 
 
 
 
 
Tenersi tra le labbra

 
Niente è più religioso di questo
tenersi tra le labbra
chiamarsi per nome, guardare
il luccichio di un improvviso
smarrimento, un balbettio, il
raggio di una promessa.

Rendere le orecchie aguzze come lupi
affamati, perché di questo
si tratta, di una fame chiara.

Così tu ora mi tieni tra le labbra.

 
 
 
 
 
 
Le ragazze al supermercato dell’abbigliamento

 
Tutte ritornano ragazze, anche quelle i cui anni sono volati in fretta,
quelle arrotondate ai fianchi, ingrigite nei capelli, eccole
al banco delle maglie, alle grucce delle camicette, davanti ai colori
nuovi dei tailleur. Ritrovi in ognuna lo sguardo predatore l’ansia
di agghindare una bellezza adesso in bilico.

Con gesti, con occhi che scrutano, che tastano, soppesano,
pronte a imprigionare la turgida elettricità del corpo, quel
calore vorace da addomesticare dentro una maglietta, da
preservare in una giacca. Incartare una bellezza
che vuole affievolirsi, che vuole andare via.

Nei gesti delle mani vaghe, imprecise
riconosci in una un cuore che addenta il cielo,
in un’altra svelte gambe di maga dell’amore, e infine
una solitudine spietata come un primo piano.

 
 
 
 
 
 
Piccoli morsi dell’amore cannibale

 
Vieni, diceva con la voce intinta
nel più profondo miele, vieni che ti
sbrino il cuore, ti sciolgo
questi ghiacci eterni, ti lancio
l’autostima in orbita, in eccesso
di erezione l’ego, ti titillo
la vanità. E intanto pregustava
il sangue come un trofeo di caccia,
uno stendardo, e affilava la lama.
Perché l’amore non è faccenda
per gente sana, t’insinua l’illusione
della felicità da bere a sorsi
ma poi ti atterra, ti divora a morsi.

 
 
 
 
 
 
Polenta e baccalà

 
Ceniamo sotto i portici, al Pratello, in una briciola,
un pulviscolo d’eternità. Io e Dio rinnoviamo
l’idillio d’ignorarci, di non turbare la cena
con domande insulse. Non mi riguarda l’aldilà.

Guardo il cielo stellato della fugace felicità
felsinea, la piccola poetessa del sorriso, ne conosco
i fulmini e le infinite dolcezze. C’è un adesso, un qua.

Guardo l’ala di una veloce beatitudine.
Un’ombra di rimpianto riga la notte bolognese,
graffia la convulsione breve del riso, la voluttà
del vino bianco, e lei, che mangia polenta e baccalà.