Transitoria – Antonella Sbuelz

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Che la poesia una volta scritta non sia più del suo autore ma del lettore è cosa abbastanza risaputa. E oserei dire addirittura veritiera. Questo perchè la poesia tende per sua natura ad essere il più ampia e universale possibile fino a diventare interpretabile, fino a lasciarsi indossare da un numero discretamente alto di persone in quanto esseri umani come il suo autore. Certo questa è una definizione terribilmente approssimativa e temo addirittura banale ma che induce a un ulteriore tentativo di definizione, o per meglio dire di classificazione. Di cui personalmente sento l’esigenza forse con un po’ di superba pretesa che sia un’esigenza non solo della mia singola persona. Va infatti detto che bisogna suddividere la massa degli attori del mondo della poesia in due macroinsiemi: c’è chi continua a dire la poesia è questo la poesia è quello, e chi la poesia la fa ogni tanto inserendo un’immagine fra i versi che si avvicina a un’evocazione della funzione della parola.

A integrazione di questa piccola premessa devo raccontare due incontri particolarmente curiosi che mi è capitato di avere con due grandi poeti a Trieste. Claudio Grisancich e Marko Kravos. Nomi che indiscutibilmente hanno già fatto la storia di un territorio assolutamente non minuto. Poeti riconosciuti e veri. Quando ho incontrato Grisancich a questo fortunato ciclo di eventi che ho l’onore di gestire insieme a Sandro Pecchiari a Trieste (Una scontrosa grazia) sono rimasto colpito dal fatto che tale poeta, non certo giovanissimo, fosse palesemente più interessato alle belle fanciulle presenti in sala che a discorrere di poesia con noi. Fino ad arrivare a un momento quasi elegiaco del poeta sui tacchi (devo dire molto sexy) di una ragazza seduta lì davanti. Nessun grande discorso su cos’è la poesia, sulla sua funzione, su cosa dobbiamo fare in quanto poeti nè discorsi sulla sua presunta morte o vitalità. Il tempo delle gambe di quella delicata giovinezza non lasciava spazio ad altri discorsi sulla poesia. Alcuni giorni dopo ho incontrato, sempre a Trieste, Marco Kravos (a un evento con Antonella Bukovaz, Rossella Tempesta, Gabriella Musetti), il quale avendo saputo che mi occupo di editoria di poesia mi si è avvicinato dicendo: ma veramente tu fai poesia? Con un tono e un sorriso che lasciavano senza tante interpretazioni o giri di parole intendere un: ma sei scemo? Definendo quindi una sorta di inutilità della poesia.

Tale premessa per arrivare, prima che al libro, alla prefazione di questo stupendo volume di poesie di Antonella Sbuelz, Transitoria, edito da Raffaelli nel 2011 e vincitore del Premio Colline di Torino nel 2010. Lo scritto introduttivo a firma di Davide Rondoni dice: Insomma, la poesia che qui si raccoglie, con generosità di prove, con passione, e quasi con ansia di non perdere nulla delle occasioni e dei volti a cui si è dedicata, è una elegia, un decoroso pacificato lamento sul fuggire dei volti, delle cose, delle energie? O, come io sospetto, è qualcosa di ben più duro, di guerriero, di abitato dall’ira? Elegia o epica? E più avanti ancora: Libro di non assoluzione, dunque. E dunque diciamolo subito, libro che appartiene in pieno alla strana giustizia della poesia, diversa da ogni altra giustizia umana, da ogni possibilità di assoluzione. La poesia, infatti, non assolve. E non assolve a nessun compito. La poesia mette a fuoco. Strenuamente, con delicatezza o violenza sorprendenti. Perchè cerca la verità. Ne è attratta. E la verità non è giusta, nel senso che non ha le misure della nostra idea di giustizia. Per concludere così: come se le parole – a cui la poetessa in chiusura dedica una specie di inno come altri fanno alla Madonna – avessero anche e soprattutto tale possibilità di prendersi cura di noi, e di noi nel tempo che corre e sovrasta e interroga. Un tempo non più imputato da non assolvere, ma mistero da dire. Mistero da pronunciare. Devo ammettere, come si sarà già intuito, di riconoscere in queste parole moltissimo l’impronta di Davide ma molto meno quella di Antonella, che pure devo confessare di non conoscere così a fondo. Ma certo Transitoria non mi pare il libro di un guerriero (nel caso una guerriera) né un volume che tenta il mistero del tempo. Che avrà pure e certamente una sua ragion d’essere in quanto è innegabile che il tempo abbia in sé una componente di mistero, ma non riesco in Antonella a rintracciarne l’evocazione. Per cui sicuramente mi appello alla proprietà della poesia di cui all’inizio dando una mia opinione al testo e appellandomi al ragionevole dubbio.

Devo infine avvertire che questa piccola opinione sul libro di Antonella mi viene dopo un bell’evento da lei fatto a Udine, un’autobiografia dove con un respiro ampio su tutta la sua produzione abbiamo parlato di modelli, di scrittura, di ritmo, di interpretazione e di immediatezza. Oltre che di verità, di ricerca. Tutti elementi che a mio avviso confluiscono armonicamente in un grande e complesso termine che è una delle primissime parole che incontriamo in queste pagine: memoria. E che mi fa pensare a Transitoria più a un libro della memoria che ad altro. Una memoria che ha riferimenti precisi, rintracciabili storicamente sia che si cerchi la storia privata dell’autrice attraverso la geografia dei suoi incontri e vicinanze personali (Elena e Lionello Fioretti, Annamaria, Giovanni, Marina e Tito eccetera eccetera eccetera – Marina tra l’altro presente alla succitata presentazione), sia che si cerchi la Storia con la S maiuscola (l’incendio della Paganini, la guerra in Russia e via dicendo). Un libro che non affonda ma affronta la memoria con registrazione precisa, meticolosa, quanto personale. Una registrazione di figure umane che lasciano inevitabilmente qualcosa ricordando in qualche modo un intervento di Gian Mario Villalta di qualche mese fa al Castello di Susegana (Tv), nel quale il direttore di pordenonelegge ha sottolineato la necessità della memoria come funzione prima della poesia.

Un libro che prosegue in maniera assolutamente emblematica, quasi dantesca (e più avanti Dante è addirittura rievocato: Nel mezzo del cammin della tua resa), accostando alla memoria l’amore. Una figura di memoria privata, intima, ma non per questo meno importante. Anzi fondamentale nel suo essere filtro indispensabile per la continuazione della ricerca storica (da una parte) ed esistenziale (dall’altra) di Antonella. Perchè lo studioso quanto il poeta quanto effettivamente l’uomo nel loro essere e cercare devono giocoforza fare i conti con la propria presenza all’interno della ricerca e del mondo. Devono capire la propria posizione, la dimensione del dare e avere che si crea all’interno della loro attività (che sia ricerca storica per un libro, che sia insegnamento, che sia il semplice vivere nella forma del respiro). Un amore, o come dice Antonella gli amori, che a me pare ricalchino le intenzioni già espresse nel capitolo precedente. Nella memoria c’è un tu che si racconta dicendo quanto resta di quel tu all’interno del , negli amori c’è un tu a cui si parla ammettendo quanto quel tu ha dato e sia importante al .

L’amore come strumento per capire e gestire la memoria, ma Antonella sa anche che la memoria ha una sua collocazione, resta sempre fisicamente da qualche parte, e questa parte è il tempo come in esergo viene giustamente suggerito: Non esiste tempo astratto; il tempo è sempre quello di un corpo che lo porta e lo prova, quello della storia di un essere vivente – Sylvie Germain. Una sezione, Tempo, che appare più cupa e dura del resto del libro non tanto per l’effettiva consistenza del messaggio poetico quanto per il tono che ne traspare: il fare che viviamo appena un niente. Perchè il memento mori non può che essere la malinconica quanto bellissima misura della presenza totale e intensa della poetessa all’interno del suo racconto, che è prima di tutto sguardo e poi parola. Un coinvolgimento senza sconti che fa comprendere la posizione della scrittrice e che personalmente penso sia, proprio in poesia, la chiave di lettura dei suoi diversi romanzi.

Le ultime due sezioni del libro continuano l’assoluta coerenza del discorso di Antonella Sbuelz. Dopo Tempo si trovano gli Sguardi che coinvolgono una più contemporanea ricerca storica (che proprio perchè contemporanea sfiora la critica) sempre in bilico tra storia privata e Storia umana. In forma di quartine secche al limite della sentenza l’autrice traccia un disegno impietoso ma obiettivo, pulito e netto. Assumendo le caratteristiche prima una ad una esplorate (la memoria, l’amore, la presenza di sé, il tempo) proprio per guardare il mondo e quindi in qualche modo capirlo. Per concludere infine con uno sguardo allo strumento usato per questa azione: la parola. Verbo – alle anonime della parola dichiara senza mezzi termini che il mondo diventa di voce. / E il cielo diventa di voce. / E il corpo diventa di voce, in groppa al mondo / appena conquistato. Una parola che oppone stente sillabe di volo / al grande silenzio finale.

Ma c’è un elemento che si trova proprio in questa sezione, emblematicamente sotto il titolo di Esilio che a mio avviso racconta moltissimo di Antonella Sbuelz: Dire tacere / chiedersi cercare: / la propria strada, oltre ogni bugia / E in questo esilio ultimo del vivere / fare che il vivere non sia vigliaccheria. Durante la presentazione a Udine di cui ho parlato all’inizio di questo commento è emersa, più per i romanzi che per la poesia, una riflessione inerente la dinamica della scrittura. Antonella ha confessato di iniziare, in prosa, con un moto emozionale poi gestito attraverso una ricerca finalizzata a trasmettere una verità storica. Ma che il progetto del libro non è predefinito ma in itinere. Emerge nel tempo della scrittura. Una risposta a questa riflessione è stata: Ma c’è una circolarità ricorrente nelle tue opere, quindi forse segui comunque un tuo modello. La domanda che mi è sorta a questo punto, e alla quale Transitoria in qualche modo risponde, è: ma quindi Antonella tu segui un tuo modello privato o lo costruisci mentre scrivi? Giocoforza infatti un autore, soprattutto quando intelligente e preparato come la nostra, nel momento in cui compone un’opera non può esimersi da una sua opinione che quando non dichiarata emerge comunque dalla struttura dell’opera. La poesia, in quanto forma espressiva più immediata (ma solo nella lettura, attenzione!!!), è un veicolo paradossalmente più semplice di questa opinione che è il messaggio del libro. E che personalmente trovo come un messaggio d’amore, di vicinanza, un messaggio di grandissima umanità.

Se infatti inizialmente avevo definito questo libro come un libro della memoria adesso sento l’esigenza di aggiustare il tiro chiamando quest’opera un libro dell’umanità che ha una delle sue punte più alte (infinitamente alte e non a caso in un contesto storico) nei versi: da allora, sai, / mi sono chiesta spesso / se sia tornato vivo alla sua isba / – il figlio della madre universale – / che hai affidato alla mia memoria. Un libro che trasmette il fondo più sostanziale dell’umanità delle persone e per questo non può non essere connotata da una certa malinconia (Antonella in presentazione ha confessato di scrivere poesia quando presa da questo sentimento) in quanto l’uomo è spesso vittima di sé stesso all’interno della tragedia della Storia, o della vita stessa nella sua costituzione (nascita vita morte), ma comunque lascia qualcosa di fondamentale e fondamentalmente umano (la memoria e quindi la parola che trasmette la memoria).

C’è un ultimo aspetto che a mio avviso sottolinea ulteriormente questa caratteristica della poesia di Antonella: il ritmo. Mi viene in mente un lungo articolo di Filippo Strumia su L’emergenza del verso. Note di analisi della poesia inserito nella rivista Vite che non sono la mia. Realtà letteraria e relazione analitica del 2014 (ne ho scritto qui) che mi aveva fatto leggere la cara Giovanna Rosadini. In questo Strumia, riferendosi a quattro versi trovati incisi durante il servizio militare sotto il banco del corpo di guardia da un compagno, afferma: L’elemento presente in tutte le culture è il ritmo, la rima compare solo in alcune tradizioni poetiche. Anche il nostro autore si è disposto a scrivere in ottonari in rima baciata, non sapendo, probabilmente, alcunché di regole poetiche. […] Come se la ripetizione di comportamenti e gesti coltivasse, grazie alla risonanza di gruppo dei neuroni specchio, il terreno su cui attecchisce la possibilità di pensare. D’altro canto l’antropologia propone da tempo ipotesi equivalenti, come lo sviluppo delle tecniche agricole e la domesticazione degli animali come conseguenza di comportamenti rituali. Torniamo alla metrica, l’organizzazione stabile e ripetitiva dei versi può essere considerata, direi, l’equivalente linguistico del comportamento rituale. Cambiano le parole, in parte il ritmo interno del verso, ma la caduta della rima avviene implacabilmente nel momento giusto. Se, immaginando, estendessimo questo andamento nello spazio vedremmo dispiegarsi delle forme geometriche o, se vogliamo, movimenti ripetitivi di danza. La metrica è il rito linguistico, potremmo dire fonetico, alla base della poesia. […] Nel frattempo anche dal punto di vista neurofisiologico la predisposizione al suono previsto attiva una facilitazione della comprensione. È come se aprissimo le orecchie aspettando quel suono e pronunciandolo intimamente insieme al gruppo. Il nostro poeta, incidendo le sue parole di nascosto, evoca un comportamento collettivo in cui i membri della specie si muovono e cantano insieme. Non diverso è il fenomeno della ninna nanna: il bambino attende fiducioso e rassicurato il cadere della rima, cogliendo una commovente consonanza con la mamma.

L’articolo, molto ampio, continua definendo anche il campo d’attenzione e lo stato di coscienza così dicendo: È ben noto che la ripetizione di suoni e parole può modificare lo stato di coscienza. Il ritmo del tamburo, soprattutto se ascoltato in situazioni collettive, favorisce il restringimento del campo d’attenzione. L’estasi sufica, le cerimonie del Candomblé brasiliano, la recita del rosario e le attuali discoteche hanno un comune denominatore: la partecipazione collettiva a un evento dominato dal ritmo con gradi differenti di alterazione della coscienza. L’alterazione dello stato di coscienza è molto graduale e va dal moderato restringimento del campo fino all’esperienza della trance. Il restringimento del campo di coscienza consente di escludere l’attenzione dal mondo circostante e concentrarsi sugli oggetti mentali. […] La riduzione del campo di coscienza favorisce l’identificazione col gruppo grazie alla perdita della percezione di sé come soggetto separato. Ora, l’ascolto e la lettura di parole cadenzate restringe il campo di coscienza e facilita l’identificazione con le parole dell’autore. È come se creassimo un terreno favorevole all’ascolto eliminando i rumori mentali di disturbo. Un appassionato lettore può, leggendo un autore amato, percepire una forma attenuata di trance di comunione, cioè di relazione immaginaria ma emotivamente vivida col poeta. Questo fenomeno è favorito dal ritmo delle parole, dalla struttura dei versi.

Ora viene da sé che Strumia spiega perfettamente quel ritmo che è parte costituente e fondamentale della poetica di Antonella Sbuelz. Un ritmo che non va quindi inteso come personale ragione del verso, soddisfazione privata che deriva da una qualche formazione della poetessa (anche se non si può negare del tutto), quanto come una forma di quell’umanità che è il messaggio intrinseco della sua poesia. Questa è una scrittura che crea un terreno favorevole all’ascolto, che incontra gli altri esseri umani, che li invita a leggere e pensare. E in questo non c’è nulla di privato anche se nasce dal privato. Non c’è nulla di circolare perchè pur partendo dalla circolarità dell’intreccio (anche in poesia come si è visto) arriva ad incontrare quello sbocco verso l’altro che è ponte, che non è frattura ma apertura, che non è mistero ma umanità. O, come dice Antonella in chiusura del libro, è vita resa in nudo di parole.

 
 
 
 
 
 
Figura n. 2
In memoria di Bruno,
scampato al rogo della Paganini nel giugno 1940

 
 
Andiamo, allora,
che qui il mare è vasto,
più vasto di quel mare fatto rogo
dopo l’incendio della Paganini
che arde e schianta prore e sonni e nave
e libera terrori senza nome:
 
e attorno fiamme e grida e l’onda dura
che ti aggredisce e che tu infine domi
come il cavallo a dondolo bambino
e tu bambino – in foto – in groppa a lui
 
Io l’ho saputo donna – già lontana –
chi fu che ti salvò dal mare, allora,
dall’orrido di gorghi a forza nove
dal cielo squadernato in rosso e nero
 
E in questo sole ch’è di aprile, il primo,
sento il calore in raggi di carezze
come carezze sopra la tua pelle:
ché si fecero curve di Toscana
colline di Maremma
creta buona
i corpi delle donne sul tuo corpo
il fiato del respiro
nel tuo fiato:
si fecero anse d’Arno a primavera
– i polpastrelli alghe, i palmi rive –
le mani senza oriente né occidente
delle puttane dolci di Durazzo
che allora ti raccolsero alla riva
e infine
        si disposero
                  a presepe
al fondo del furore della guerra
nel chiuso di un bordello tutto crepe
 
Ma quando mi leggevi di Acheronte
– del traghettare ombre e rabbia e orrore
dal ciglio a un altro ciglio di dolore –
la voce ti sgorgava dal passato
e ti strappava sillabe di vuoto
che io – bambina – appena raccoglievo:
e ti tremava, viva, la memoria
 
La sento solo adesso – scusa, padre –
la sento solo adesso, l’eco vera
 
A volte serve il senso di una vita
– tutti gli errori, tutta la miseria –
per penetrare il senso di una storia.
 
 
 
 
 
 
Figura . 10
In memoria di Carlo
 
 
Nella foto che ti mostra alla partenza
mia madre ha un grande fiocco
tra i capelli
e tu una piuma nera
sul cappello
sopra lo sguardo dritto dei vent’anni
che dopo non avresti ritrovato
 
Me ne parlasti una volta sola:
dicesti di quei piedi assiderati
della febbre che intanto ti bruciava
del tuo risveglio all’isba
– un paradiso –
e della donna china su di te:
 
la Guerra tra i Vent’anni e il Grande Gelo
– guerra privata, tutta e solo tua –
lì fu di assalto, e non di ritirata
 
La galaverna ti faceva assorto
ma, vecchio, spalancavi
il viso al sole
al cielo adolescente del tuo aprile
 
Delle parole con la donna russa
raccontasti
poco prima di morire:
covate così a lungo dentro, in cuore,
al limite dei quasi novant’anni
erano pronte a schiudersi,
leggere:
Perchè mi curi? Ho invaso il tuo paese.
 
Lei non risponde subito: la vedo.
Guarda i tuoi piedi, guarda le sue mani
 
Anch’io, da tanto tempo, ho un figlio in guerra.
Spero in un’altra madre: che lo curi
.
 
Niente medaglie,
al tuo rientro a casa.
Rifuggivi raduni e proclami,
tentazioni sospette di gloria.
 
Da allora, sai,
mi sono chiesta spesso
se sia tornato vivo alla sua isba
il figlio della contadina russa
– il figlio della madre universale –
che hai affidato alla mia memoria.
 
 
 
 
 
 
Nome
A te
 
 
Dire il tuo nome,
dirlo e farlo mio
respirarlo
dentro sillabe rinate
e capire che la mia è nella tua vita
che non c’è prima senza te, né dopo
 
Nel brivido del giorno
che si spegne
raccolgo sul mio corpo
ogni tuo fiato
 
E sento che l’amore è ciò che resta
quando tutto il superfluo è consumato.
 
 
 
 
 
 
Transitoria II
 
 
Il fare che viviamo appena un niente:
 
come l’ala frantumata di un gabbiano
fusa nell’ora d’afa col bitume
in un unico grumo
arreso al nero
 
Infine il vento soffia tra le piume
e le inarca facendole gonfiare
in un’incerta sillaba di volo
come l’eco di un volo
dal mare:
 
così la nostra vita, così il nostro amore.
 
 
 
 
 
 
E ci sfioriamo,
io e la mosca nera
intrappolata nella ragnatela,
per un attimo forse sorelle:
diversa la natura della rete,
la natura dei diversi predatori.
 
Ma oggi è lei,
il mio memento mori.
 
 
 
 
 
 
Ricordo: mi strapparono due denti
per fare spazio ai prossimi venturi
 
così la vita, e forse te ne penti:
lasciare il vuoto a pieni mai sicuri.
 
 
 
 
 
 
In sella non si sta, non c’è più posto,
rimane solo il fondo della fila:
 
rimane solo graspa in fondo al mosto
e una bottiglia vuota a fine pila.
 
 
 
 
 
 
Soffio
 
 
All’alba c’era il verbo
– è stato detto –
l’incipit della creazione:
un soffio di fiato divino
un sogno
un progetto
un’intenzione
 
All’alba c’era il verbo
– è stato detto –
la promessa di passato e di futuro:
la scelta ancora aperta
il bene e il male
il ciglio tra odio e perdono
il dubbio tra ferire e medicare
 
Della lingua perduta
rimane
la dolcezza crudele del frutto
quando il morso ha dissipato il suo turgore.
 
 
 
 
 
 
Esilio
 
Dire tacere
vivere pensare:
 
lasciarsi andare al flusso che cattura
e sottomura muoversi sicuri
o brancolare incerti al certo, nudi,
in mezzo a verità senza confini
da scardinare al vuoto con le mani
da riassaggiare come nuovi pani
oltre questa babele di sapori
da sottrarre all’assedio dei vincenti
di chi fissa le quote per la fame
dei forti dei ben-nati dei sicuri
dei venditori d’alibi e deliri
degli usurai di anime a riscatto
 
Dire tacere
cedere lottare:
 
mimetizzare i dubbi col baratto
che offre pace in cambio d’ubbidienza
e senza più domande da placare
si adagia, pingue, in mezzo al suo piacere
e in mezzo al suo piacere offre conforto
a chi di un volo corto vuol volare
 
Dire tacere
chiedersi cercare:
la propria strada, oltre ogni bugia
 
E in questo esilio ultimo del vivere
fare che il vivere non sia vigliaccheria.