Tracce – Massimiliano Bottazzo

Tracce, la silloge di Massimiliano Bottazzo, raccoglie in cinque sezioni poesie di diverso tema ed espressione che si compendiano e intrecciano come fossero tragitti di un’unica e lunga camminata in tempi e luoghi disparati. Le uniscono e sostengono un modo di scrivere e raccontare, di far poesia, comune, uno sguardo apparentemente semplice e distante, invece attento e personale, persuasivo nella cifra poetica, di fatti e situazioni generali e personali spesso conditi dall’amaro della vita.

Si intrecciano le passeggiate in una Lisbona malinconica ma piena di colori e odori, di vita, dove Massimiliano sembra essere semplice spettatore in un cinematografo, ma invece coinvolto nella tristezza di una vita che ha lasciato più ferite che sorrisi: “…perché di modi di sprecare la vita/la vita è piena“, e sembra di essere nelle stesse strade percorse da Antonio Tabucchi che insegue il suo amato Pessoa, ma di corsa, veloci, come a cercare, forse inutilmente, un posto tranquillo dove fermarsi e sostare in pace. Più crudi, pietrosi, i Ritratti di Orsera dove mare e visi amari s’intagliano in paesaggi che non distinguono alcun confine.

Tracce di Memorie che arrivano da lontano, con il nitore, quasi con l’ovvietà, che la memoria alla fine ci lascia; capisaldi, ceppi personali e familiari, un’affabulazione che il tempo ha rastremato per lasciare scoperte le cose essenziali, quelle ormai indelebili. C’è appena velata una traccia di tristezza, un rimorso d’omissione, ma chiaro tuttavia un profondo e scritto imperituro che il ricordo ha lasciato, preciso nei suoi dettagli e contorni, sorretto e intrecciato con versi nitidi, accuse, rancori, perdite che diventano pennellate di vividi colori, per tracciare momenti vissuti pienamente nel fondo dell’animo. Il lavoro che ne esce è un quadro da mettere alla parete sotto la luce diretta.

Consapevole dell’ineffabilità delle cose, delle situazioni della vita, della Storia stessa, vissuta di riflesso e rimando, conseguenza di un qualcosa che si ha l’impressione di non poter cambiare, che tutto è alla fine definitivo e non più ripetibile e, ancor peggio, riaccomodabile : “…poi d’improvviso conosci/che non c’è ripetizione/…ogni fatto è per sempre/e già sei morto” (Meccanismi), oppure la scambiabilità delle persone “Le facce dei miei amici/potevo essere io” (Fisiognomica).

Tracce che a volte sconfinano nel sogno, dove l’illusione s’amalgama per dar forma a un vissuto da tener stretto e coltivare in tempo di veglia, una possibile idea di morte ci guarda di sottecchi e di nascosto, è sfarinata sulle poesie, che non riesce però a contrastare il più forte sentimento d’amore che a volte prepotente e colorato salta dalla pagina , ma al tempo stesso timido, che dà conforto ed è unica indissolubile certezza, senz’altro eponimo di casa e di breve intensa quiete: “sappiamo restare insieme/mantenendo infinite distanze” (Après Midi).

E non manca l’incursione nella cronaca spicciola, ma di quella esemplare. Ed è difficile non amare e coinvolgersi nei versi che ci parlano di Horst Fantazzini, il bandito in bicicletta, personaggio triste ed eroico al tempo stesso, che diventa mito e simbolo poetico di malinconica ribellione: “da onesto corridore ogni sera visitato/dal sogno di una fuga“. E come tessere di un mosaico usate per riempire le pareti della nostra vita anche i ricordi, seppur amari, seppur fatti col tempo buttato, fanno parte di noi, delle nostre case che abbiamo lasciato per abitarne altre, con un sorriso.

Spolvero di malinconia e ironia che troviamo nel capitolo del Diario Elbano, ma, ecco!, il verso che diventa lucido e più nutriente mentre si appoggia sulle piccole cose che accompagnano una vacanza, gli oggetti comuni che si integrano magistralmente nello scenario circostante e diventano sintesi chiara di una visione generale appena filtrata dall’immediatezza di un avvenimento: “e mentre la sirena del traghetto/annuncia la manovra/celebro il giorno nuovo/con grandi pezzi di cioccolata“. E qui non si riesce a non riandare ai versi dei grandi poeti statunitensi, soprattutto a Simic, dentro a una scrittura apparentemente frivola e trasognata, ma acuminata fino ad arrivare all’essenza di una poesia cucita addosso come un abito che casca bene.

Questo sentimento, questo voler bene a tutti i costi perché è cosa giusta e va fatta, è, a mio avviso, l’ossatura delle poesie di Massimiliano, al di là dei rancori, delle rabbie, della malinconia e del tempo perduto o malamente sfruttato.

Parla Bottazzo di un uomo ‘noi’, di qualsiasi persona incontrata o riflessa, dona finalmente individualità nello scorrere troppo precipitoso, affannato di un fiume da ripidi scolli che tutto travolge ed elimina e la memoria degli anni trascorsi, a volerlo fare, porta malinconie e ricordi cupi. Non gioca su questo però l’autore, facile e inutile, ma con ottimo intreccio poetico ci racconta, ci dà un buon vestito seppur consumato per continuare ad uscire ogni giorno di casa, e anche a vedere la vita con un sorriso.

Ci resta dopo la lettura la sensazione che chi ha scritto questi versi sia una persona che vuole bene, ed è uno dei pilastri su cui dovrebbe poggiare in generale la poesia, e passa oltre al montaliano ‘spesso il male di vivere ho incontrato‘.

Un bene che ride di sé, che sfalda la divisa di ‘poeta’ per ridarci la figura di un uomo che scrive poesie: “Restammo davanti al gelso/con lo strudel tiepido tra le mani/guardando negli occhi un asino felice“. (Domenica).

 

Fulvio Segato