Tersa morte – Mario Benedetti




Mai la poesia di Mario Benedetti è stata così chiara; mai, in questo poeta, il tentativo dello stile ha cercato di essere così asservito al progetto di spartire con il lettore il senso profondo di un’esperienza estrema, dolorosa, quotidiana, comune. In questi versi, l’esperienza umana del morire è “tersa”, chiarificata. Al contrario di quanto era avvenuto nel precedente libro, “Pitture nere su carta”, qui è il tempo il protagonista occulto; il tempo che scandisce, accelera, illude, frena e si inarca sulle tappe di una consapevolezza che cresce pagina dopo pagina. Per quanto è dato all’umano vivere e all’umano scrivere, attraverso ciò che più logicamente le si oppone, la morte è narrata attraverso un procedere fatto di tempo e tempi, date, anni, mesi, giorni. Dalla morte si traggono conseguenze, con tutto lo scandalo possibile, con tutta l’oscillazione emotiva possibile: dalla più piena partecipazione sentimentale, dall’atonia, dalla paralisi, si giunge ad un bradisismo critico, acido, sorretto appena dal minimalismo informale di una scrittura che sa, nonostante tutto, trovare ancora versi di potentissima espressività. Perché il morire impone un principio, una verità ultimativa, un criterio ineludibile: ogni uomo muore come morì il primo uomo apparso sulla faccia della terra; la morte di ogni singolo uomo è, dunque, la morte di tutta la specie.

Così Tommaso Di Dio apre la sua anteprima editoriale, nello spazio RAI della cara Luigia Sorrentino, di Tersa morte di Mario Benedetti (Mondadori 2013). Sempre puntuale e preciso Tommaso Di Dio sottolinea già in apertura una delle caratteristiche più significative del libro di Benedetti: la chiarezza. Tersa morte può in effetti essere considerato un atto di chiarificazione della testimonianza umana nei confronti della morte. Morte che non è mai solo intima, mai solo personale (pur nascendo da esperienze private del poeta), ma esistenziale e collettiva. Anche nel momento in cui si cala nel simbolo del sosia da un’iniziale contesto personale (La vostra vita per me / che ero il figlio più piccolo, / che non c’ero) si apre, attraverso la parola, a una riflessione oggettiva sulla realtà (Non c’è più niente. Il gas dei corpi, / i vestiti smangiati, i femori, / le mascelle, i denti, il loro sorriso, / il bacio dei denti, senza labbra).

Un’attenzione inoltre ai particolari fisici del corpo. Perchè la chiarezza (tersa) della morte è la certezza del disfacimento del corpo (il cranio senza occhi, la mascella aperta) che è metaforicamente analisi della vita nel suo evolversi e stare (Anche se è stupido diluire la morte / con la vita, non farti questa domanda). La morte in effetti di per sé non esiste e non ha significato all’infuori del rapporto con la vita che resta. Vita che è dolore, cupezza, che in Tersa morte diventa sospensione in uno spazio che potremmo definire classico, e border line. Così il vivere la morte diventa il vivere la vita nella sua storia (Il respiro della casa è lo sgretolarsi dei muri […] invisibile la fossa del funerale). Un tempo che è già passato e che Benedetti osserva nella sua compresenza poetica all’interno della parola.

La parola è un’altro, oltre la morte, dei punti focali di questo libro. Parola futile (Futilmente presente è la parola, anche questo dire), indicativa (Tetro è una parola, cupe e senza forze / sono parole: verifiche indicative di te), trascorsa (Le parole hanno fatto il loro corso), che è per i vivi e non per i morti (Le parole non sono per chi non c’è più). Ed è quest’ultima precisazione di Benedetti che restituisce tutto il potere chiaro e crudo della complessità non solo della sua poesia, ma della poesia in genere. Le parole sono per chi resta anche nel momento in cui la poesia stessa perde significato (Ma io nella mia vita non ho scritto nessuna poesia, / io nella mia vita non ho letto nessuna poesia. / E questa nessuno l’ha scritta, nessuno l’ha letta). Evidente parallelismo d’una vita che resta anche nel momento in cui, attraverso il disfacimento del corpo, la vita stessa perde significato.

La parola è chiara, tersa, classica (Di Mimnermo le poesie, la stanchezza dell’età […] Nessuna immagine o parola, o disperato mondo), è disperata parola che ha però la caratteristica fondamentale di esistere a prescindere (Chi vive dice nella vita tante cose / che restano nella vita che muore) e che per questo diventa fondamentale bilanciamento della morte (E dire dei morti come se fossero / ancora dei vivi, come è necessario / sorridere quando si è in compagnia). Una parola che è necessità e dolore. Un dolore sempre universale, mai ostentato, mai privato, ma simbolico dello stato umano (È un’ora assente. Mi guardi. Si vive ancora, sì, si vive ancora. / Ma non c’è la mano da darti. Guardi gli occhi della malinconia).

E per chiudere le parole del succitato Tommaso di Dio in chiusura della sua bella anteprima: Henry Miller scriveva queste parole, nel centenario della nascita di Rimbaud, nel 1954: “Credo che il compito del futuro sia di esplorare il dominio del male fin tanto che non rimanga nemmeno più una briciola di mistero. Dobbiamo scoprire le amare radici della bellezza, accettare radice e fiore, foglia e germoglio. Non possiamo più resistere al male: ci tocca accettare.” “Tersa morte” è un libro che va in questa direzione, che non recede dal male di un passo, lo mostra e lo affronta e anzi giunge infine a dire: “è giusto che io non veda questo mai più”. La morte di una parte della propria famiglia lascia sgomenti; costringe il lettore a tenere fissi i propri occhi sugli “occhi della malinconia”, a percorrere le vie senza ritorno, i sentieri spezzati dagli alberi caduti. Eppure questo è un libro tutto per noi; è tutto scritto per chi è vivo e vuole vivere.


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Il mio nome ha sbagliato a credere nella continuità

commossa, i suoi luoghi intimi antichi, la mia storia.

Le parole hanno fatto il loro corso.

Gli ospedali non hanno corsie. Dal cimitero dei cani

vicino alla discarica di Limbiate escono i morti al guinzaglio.

Non si addensa nulla, si disperde al telefono il mio petto.

Le parole hanno fatto il loro corso.

Sei solo stanco, ripete una voce qualunque.





Quante parole non ci sono più.

Il preciso mangiare non è la minestra.

Il mare non è l’acqua dello stare qui.

Un aiuto chiedertelo è troppo.

Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla,mi toglie le parole.

E non ci sono salti, mani che insieme si tengano

alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile

è il letto nella casa di riposo dei morenti,

agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.

In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,

i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,

il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.

Arido sapere, arido sentire.

E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,

e una vita così come sempre da farmi solo del male.





Le parole non sono per chi non c’è più.

Si commuovono e possono dire il viso morto.

Gli occhi erano quelli che mostrava,

il vestito sepolto quello visto altre volte.

Vedere che non ci sei più, non dire niente.





Cosa devo guardare per sentire che non è così vero,

e riuscire a spostarti nelle faccende di casa,

a risospingerti lungo le strade. E tra le righe

vicine dei capelli guardo i sentieri del sottobosco

ingiallito. E riesco a vedere i vicoli di Napoli,

gli anni Trenta, i gatti, le gonne lunghe di una ragazza.

E tu mi dici: tu lo sai che è vero, tu resta forte e sereno,

quanti giorni hai davanti! Io sono morta di lunedì,

tu sei arrivato a guardarmi, ero una cosa vestita

con l’abito blu che mi avevi regalato e tutto il ricamo

del foulard. Così tanto elegante, così tanto bello.





Il sosia guarda, la vita ha deciso.

Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.

È avvolta nella coperta sui piedi,

il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota

sulle scatole dello yogurt medicinale.

Giocano a carte nel bar del paese. Non visto il due.

Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.

È una storia per tutti questa morte.

Nella casa il sosia tocca le dita della madre

dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite

un mese prima di compiere gli anni lei

ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.





Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,

la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,

e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa

come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,

morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,

indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto

di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,

quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,

lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque

portato come un uomo che piace, che vive per sempre,

per sempre dentro una vita che per poter essere

vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri

della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.





Ve ne siete andati con il viso inerte.

I tuoi ultimi piccoli francobolli in lire

che dovevano aiutarmi per i soldi, i soldi

arretrati della pensione ai superstiti.

La porcellana insaporita della cena,

la casa nuova con i contributi della legge

dopo il terremoto. Tutta una vita

per chi vi deve ricordare, per chi vi piange.

E piange la parola che riesce a dire.





I visi senza le ossa, le nostre cartilagini

tra la sterpaglia sollevano letti di foglie

come farina e acqua impastate senza mani.

Un altro novembre sta seduto nel vuoto,

le parole fanno buche di campo,

alzano berretti di zolle dalla terra arata.





La frana di braci si alza sulle foglie di acero

e in basso la groppa con il tabacco da fiuto,

i cartocci delle pannocchie per le sporte da fare:

notte fatta di attimi, pareti che si scuotono,

pensieri che si divincolano e si addormentano.

E torna la domanda. Non saprai di essere morto,

non sarai, quel nulla che nella vita diciamo

non sarai, non ci sarai più, non saprai di te.

Perfetta assenza. Non distrarti, non eludere

la pura inconcepibile assenza, non distrarti.





Tetro è una parola, cupo e senza forze

sono parole: verifiche indicative di te.

Senti dalla mascella al braccio fino alla mano

il vai e vieni indolenzito e attento che cede

a un campo visivo e poi a un altro:

lo spiazzo, le vetrine, la tenda di un bar,

dove insieme al tavolo rotondo il bicchiere

traslucido forma un’immagine concessa.





Ritornare nei giorni, mandarli avanti.

Anni fa, adesso, domani. Era così

per te, è così per tutti? Stare nelle ore

per altre ore, nei giorni che ci saranno.

E dire dei morti come se fossero

ancora dei vivi, come è necessario

sorridere quando si è in compagnia.





Sono questo. Questa mortalità

che mi assedia, che si concentra

negli occhi, nelle mani. Intorno

sono mute le cose, le facce

che si muovono senza motivo,

e sento dissolvermi tra questo.





È rimasto affumicato dalle bombe

il muro fino all’Osteria. Macchie

su macchie lisce inosservate senza

nomi, senza fiori. Nessuno lo sa.

Il vecchissimo oste passa e ripassa

e non mi vede, non mi chiede

che cosa ci faccio in piedi lì fuori.