Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda – Giovanna Frene

Che la poesia di Giovanna Frene sia una di quelle che più mi piacciono nel panorama poetico contemporaneo, non l’ho mai nascosto. Io stesso ho cercato spesso di avvicinarmi alla poesia e alla poetessa con presentazioni (una fra tutte ricordo 5 libri 5 poetiqui – al Circolo della Stampa di Milano il 10 settembre 2013 con Mary Barbara Tolusso, Amos Mattio, Sonia Gentili, Ottavio Rossani) e letture. Persona sicuramente non facilmente comprensibile e approcciabile, Giovanna punta nei suoi versi, come nella vita, a cercare la strada difficile rifiutando di fatto il compromesso con l’altro, l’accordo con il lettore. La poesia di Giovanna è spesso appellata e chiusa da un non se ne capisce nulla ed è innegabile che sia così. Perchè la grandezza, e il lettore perdonerà se oso tale termine in questo specifico contesto, rifiuta sempre il compromesso per evitare una dichiarazione di precariato raggiunto, di non pienezza.

Il problema della poesia di Giovanna Frene, e che in questo Tecnica di sopravvivenza per l’Occidente che affonda (Arcipelago Itaca 2015) emerge preponderante, è che bisogna prima di tutto mettersi d’accordo su cos’è la poesia. Perchè in effetti può non essere l’abbassamento usuale di tono per un dialogo col lettore, per una comprensibilità al limite del performativo, per una chiarezza che non ha nulla da nascondere. La storia, o come dice Giovanna la Storia, ce lo dice a chiare lettere. La poesia è anche la complessità strutturata e addensata dell’allegoria e sto pensando a Dante quanto a Blake. Un’allegoria che non deve necessariamente essere chiara o dichiarata ma nemmeno sfinire se stessa nell’oscurantismo della parola. Può semplicemente essere complessità, e in tale complessità un riflesso perfettamente coerente della realtà ricostruita nella e con la parola.

Ed è Giovanna Frene a dichiarare tale percorso che è chiave di lettura non aliena (in questo caso sarebbe colpa dell’autrice) ma dimenticata (quindi sotto la responsabilità colpevole del lettore). Giovanna nello scritto di postfazione avverte: Questa duplice dimensione si è del tutto radicalizzata nel libro a cui sto lavorando, “Eredità ed estinzione”, di cui “Tecnica di sopravvivenza…” rappresenta l’anticipazione: il trauma portato alla superficie, la causa scatenante del libro, è la partecipazione come soldato di mio nonno alla Prima Guerra Mondiale; la cosiddetta Storia diventa allegoria diretta della mia personale storia, e la caduta dell’impero austro-ungarico è la caduta del padre, di ogni padre possibile. L’uso dell’allegoria come affondo personale, come linea di congiunzione tra la propria esistenza e l’esistenza di tutti, oltre ad essere lampante nel succitato Dante, ricorda anche testi e modalità più antiche quali quelle veterotestamentali, dove comunque la Storia acquisisce un’importanza fondamentale tanto per il gruppo quanto per il singolo.

Una delle difficoltà più importanti, e forse culturalmente più vere, della poesia di Giovanna è l’abbandono assoluto e impietoso dell’individualismo poetico. L’io non è contemplato se non in relazione al tutto e ai tutti. E solo in questa essenza prende forma e memoria. E soffre della valutazione che filosoficamente si fa del tempo. Si legge infatti: Mi capita sempre più spesso di cogliere dentro le cose l’immagine della struttura che la mia mente proietta come una costruzione su di esse, e di cogliere dunque immediatamente la feconda irrealtà di questa sovrastruttura. La dimensione sovra-individuale di questa sovrastruttura è stata chiamata Storia. La mia poesia si è diretta proprio lì, verso la Storia, perchè è il luogo dove si esprime la massima presenza del nulla che ci assedia. Cos’è altro la Storia se non una costruzione, un immaginare uno scopo nella vita dell’intera umanità, anzi un credere che di questo scopo, o insieme di scopi, ci sia una tracciabilità precisa (fatti, personaggi, idee)? Certo, sembra che qualcosa sia accaduto, che le persone siano esistite, che alcune idee siano state scritte: ma è il credere che nella vita ci sia una qualche direzione, come dice Camus, che spinge alla fine l’uomo a costruire la Storia. Nessun fatto è mai esistito per come viene trasmesso, e ancor prima, nessun fatto, mi verrebbe da dire, è mai esistito. La dimensione dell’assurdo è avere raggiunto una coscienza tale che alla fine si ha anche sempre la sensazione in realtà di pattinare su una superficie, senza riuscire a penetrare alcunché, perchè non c’è niente da penetrare.

Ma tale inesistenza della Storia, tale forma sublimata di nichilismo, viene comunque affrontata col tentativo della parola che è logos, anche se ripiegato su se stesso, ma ancora capace di tracciare alcuni segmenti fondamentali che diventano punti cardinali. Una poesia che inoltre, per il suo capovolgimento, il suo rivoltarsi all’indietro quasi arrotolando il nastro della Storia, ricorda l’altro autore che ho voluto citare: William Blake. Il matrimonio del cielo e dell’inferno, almeno per quanto concerne questa mia piccola lettura, diventa un termine di paragone assolutamente pertinente e illuminante per la poesia di questo libro o di questo inizio che esso rappresenta.

Perchè questa è una poesia che affrontiamo con la consapevolezza di un suo essere parziale, probabilmente in fieri, come detto dalla stessa Giovanna. L’esito sarà molto più ampio e molto più complesso, e pretenderà un lettore molto più accorto e forse molto più pronto al dolore della fatica. Come si dice di certi ciclisti, la loro forza è la capacità di gestire il male delle gambe nei lunghi percorsi. Così questa poesia chiede un lungo percorso con gambe forti e che non abbiano paura del dolore, che è il dolore della Storia. All’interno di una capacità allegorica che fa diretto riferimento ai grandi Poeti costituenti la letteratura, ma che pretende un lettore altrettanto grande e altrettanto raro.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 
 
 

I.
 
si sovrappongono, sembrano a tratti coincidere, si proiettano
a poco a poco, in tutta la perfezione si curvano
mattoni di fumo, o colpe riversate
per non essere proprie, crollate
perché alte, e gonfie. piove nero, ad arco.
ma non è così.

 
 
 
 
 
 

II.
 
inimmaginabile il pericolo del fango, non se ne parli.
esige, una mappa, il secco materiale, seguire
l’avanzata se è rapida, e più rapida ancora la traccia
se disegna in anticipo la falsa coincidenza, che
conta, si sovrappone, sembra collimare:
non piove, ma non è mai così

 
 
 
 
 
 

III.
 
si sovrappongono come separazione naturale e mutabile,
approfittano della scissione scindendo, ma tutto è già avvenuto:
frattura misura solo frattura, circoscritta all’intero pavimento
chiamando potere la rovina del tempo. piove.
o non piove, se la pianta della città è la carta
del mondo
, se la radice è nemica alla radice, che è.

 
 
 
 
 
 

IV.
 
perchè nemico germogli a nemico, di notte si sostituisce,
si condensa in alto, appare come scuro cavaliere che cavalca
se stesso: fabbrica bene chi fabbrica per ultimo, approfittando
del cambio di azione, lo scopo non cambia mai, se piove,
se dio vuole, invece non piove, no, ma la terra
non è salvata, la carta, sfigurata.

 
 
 
 
 
 

V.
 
la diplopia sui carta, sfigurata, non è del tutto assente, o presente:
ne hanno a metà, una media che mantiene il dire, il fare,
il domandare per scarsità di pioggia: che fece piovere,
alla fine, fu la perfezione del coincidere, cupo vento
diretto a Oriente, ma non è così: molto e giovane
il nuovo orgoglio, abita, qui.

 
 
 
 
 
 

VI.
 
: che si solleva da sola, per la testa e
che è un arrovellarsi di cerchi, con scarsi
risultati, che è una impotenza tolta
e rimessa per sempre, come un peccato, che è
infinita sete, che è pioggia che non piove
piovuta una volta per tutte
                            in odio

 
 
 
 
 
 

I. Bronzo di Augusto Murer
 
monumento ai denti digrignati, che non sono tutti uguali: ci sono
denti più digrignati di altri, la lirica di massa, informe, poltiglia:
 
denti paterni e superiori VS denti figliali e inferiori
denti allineati e solari VS denti aspri e intricati
– e non hanno identica Patria, o non sono per la Patria uguali denti?
 
a morsi, a frammenti mai ricomposti il basso striscia proteso in alto
legato sopra la porta stretta, estrema retta di coraggio,
retta anche la posta in gioco – si ma a quale tavolo?
non si ricorda una memoria, che è così con-divisa
 
anche così si rimuore e solamente
ma anche così il morire è sotto sotto
solo un morire