Sul non pensare, poi – Giulia Rusconi

 
 
Resta in casa non rispondere
al telefono al citofono respira
piano non mangiare non domandare
mai niente non
guardare nessuno fingi
che tutto ti piaccia o che faccia
lo stesso – anche il sesso,
simula un piacere grande
per farla finalmente finita.
 
 
 
 
 
 
“Perché non si rilassa? Si sieda
chiuda gli occhi e non pensi”.
Ma già sul sedersi vacillo.
Come riescono gli altri come
si mettono dove appoggiano
i gomiti le mani?
Se chiudo gli occhi poi
vedo rosso e luci – come di città.
Sul non pensare, poi
 
 
 
 
 
 
Se sono venuta da te è solo
per essere finalmente fraintesa.
Di parlare non ho più voglia non voglio
fare l’amore essere toccata. Solo
fare bracciali di margherite dirci
com’era bello da piccoli giocare
che si credeva a tutto e tutto
era vero, e intero.
 
 
(Giulia Rusconi, Suite per una notte, Pordenonelegge – LietoColle, 2014)
 
 
 
 

In questi testi di Giulia Rusconi si assiste a un confronto duro con la consapevolezza di vivere l’età adulta o, per meglio dire, l’età della coscienza – in diretto contrasto con tutte le circostanze e le pretese che la società, in quanto sistema, appare richiedere continuamente a chi ne fa parte, fino al punto di realizzare un senso conflittuale di straniamento e di insopportabile alienazione, e un conseguente, radicale, rifiuto.

La descrizione di questa condizione dissociativa (in cui il soggetto vive in un sistema che riconosce come alieno, cercando di tollerarne le regole assurde, pur sapendo di conservare una propria diversità connotativa) è immediatamente evidente nel primo dei testi selezionati: si susseguono una serie di inviti per evitare qualsiasi contatto sociale, qualsiasi occasione di formalità – “resta in casa non rispondere al telefono … non domandare / mai niente non / guardare nessuno” fino ad arrivare ad azioni dissimulate, al fingere che “tutto ti piaccia … anche il sesso, / simula un piacere grande”, chiosando “per farla finalmente finita”, come se tale strategia comportamentale potesse in qualche modo fungere da rimedio, comportando una possibilità di sopravvivenza – anche se il senso appare quasi quello di annientarsi (o fingere di farlo) per poter tollerare questo sistema e da esso venire tollerati anziché distrutti.

La risposta del sistema è un’altra manifestazione di non comprensione, di non accoglienza, incarnata nell’invito: “Perché non si rilassa? Si sieda / chiuda gli occhi e non pensi”.

Il testo sembra dire, banalmente, facile a dirsi: evidenziando (si noti – non rispondendo alla domanda in alcun modo, ma restando nella dimensione interiore, introiettata, del monologo con sé stessi – confermando in qualche modo la dissociazione e l’impossibilità di superare l’impasse) che questo senso di straniamento, di isolamento, potrebbe essere una condizione eccezionale, o quanto meno di alcuni, e non universale (“Come riescono gli altri …?”).

E il primo indizio di responsabilità di questa coscienza così critica (in ambo i sensi), e dato dalla chiusa del secondo testo, che evidenzia l’attività che è difficile sospendere, e che probabilmente è complice – quanto meno – della condizione sinora descritta, ovvero il pensiero – o meglio il pensiero incessante, e senza limiti (“Sul non pensare, poi”).

Questo isolamento, conseguenza della società che ci circonda, del nostro tempo, delle contingenze, delle circostanze, eccetera – meglio lesinare qualsiasi dissertazione sociologica – trova un punto di fuga e un’occasione di respiro nell’incontro con un soggetto consimile, con cui condividere questo sentire, la semplice voglia di non parlare,  riflesso di quella incoscienza infantile che appare irrimediabilmente perduta.

Anche se il pensiero e la consapevolezza presente impediscono a tale sentimento di rivivere appieno, la possibilità di condividere una simile dimensione privatamente è qualcosa di confortante, leggero, quasi una prospettiva di valore: “Solo … dirci / com’era bello da piccoli giocare / che si credeva a tutto e tutto / era vero, e intero”; una frase che nella sua delicatezza nasconde un rovescio terribile: Solo dirci … come non è più bello da grandi non riuscire più a giocare, ora che non si crede più a niente, e tutto è falso, e spezzato.

Resta però possibile “fare bracciali di margherite” insieme – senza dire una sola parola o perdersi nelle sciocchezze rituali che il sistema si aspetta dal nostro porci in relazione – vivendo un cristallo di incoscienza infantile, anche solo per pochi istanti, per riuscire a tollerare la consapevolezza dell’assurdità della società che ci circonda, con tutte le sue ipocrisie e contraddizioni.

 

Mario Famularo