Strappi – Alessandra Flores d’Arcais

Strappi di Alessandra Flores d’Arcais (Lietocolle 2016) si inscrive in una poesia che coglie ciò che resta nascosto dietro i comportamenti delle persone, una sorta di poetica del disincanto, ma non freddo, lontano, estraneo alla vita, bensì immerso nella vita con quella pietas dello sguardo capace di trasmettere senso, pur nella rapidità delle immagini, dei quadri mutevoli. La cifra di questa raccolta di sembra essere la pacatezza e l’osservazione analitica, profonda, dei soggetti umani.

L’andamento dichiara una regia ben calibrata sin dall’inizio: si apre su uno scenario allargato, un contesto indagato nei dettagli minimi presi a modello di una più generale condizione dell’umanità nel tempo presente, con richiami al passato, al territorio in esame (il Nord Est, il confine), con una attenzione ai frammenti delle vite personali che si incrociano, per poi passare, nella seconda parte, a un percorso che segna una lenta calata nell’io. I titoli delle due sezioni della raccolta indicano con chiarezza il movimento: Attorno a me; In me.

Ma non si pensi a una poesia che alla fine si concentra sul soggetto scrivente in un volteggiare solipsistico e narcisistico, come una meta agognata, lì proprio dove conduce il percorso. Tutt’altro, l’analisi è spietata, lucida, e sono i frammenti dell’essere umano, di ogni essere umano, a venire osservati nella quotidianità dei gesti, delle scelte, delle posizioni. Emerge una fragilità generale che non porta a nessuna generica assoluzione, invece distingue tra chi opprime e chi è oppresso, tra chi vive da gaudente e chi sopravvive in miseria e dolore, tra chi si chiude egoisticamente nel proprio luogo e chi sta sui margini.

L’apertura è straniante, quasi una fantasia onirica, un’avventura dello spirito che si muove in un terreno desolato e notturno, carico di ombre. Ironico il tono che separa irrimediabilmente i mondi, ironico ancora lo sguardo che radica la propria posizione: se è umano aggrapparsi a una speranza / a una illusione di eternità l’autrice aggiunge: lasciatemi almeno scherzare.

Il territorio di confine è attraversato nella memoria delle guerre del passato, dove i morti non sono tutti uguali, anche se la compassione umana, a volte, li fa sentire figli sbagliati, e guerre più recenti, la dissoluzione della Jugoslavia, che mostrano ancora segni duraturi nei luoghi e dentro le persone, quelle tracce che segnano distanze insormontabili nel presente, senza neppure avere la dignità simbolica di un ponte distrutto.

Anche le relazioni familiari sono messe sotto indagine: una radiografia impietosa di chi cerca l’affetto con ostinazione nei brandelli della memoria, in una fotografia invecchiata, immaginando tenerezze mai nutrite e sviluppate, perché è facile avere per padre un santino / e non un uomo in carne ossa e mediocrità / non ci sono scontri né delusioni / strappi né ossessioni.

La lente razionale e scettica consente di vedere i contorni delle cose senza aloni rassicuranti, nella crudezza della realtà, dove è relativa la soglia del vero, dipende dalla situazione che si sta vivendo, per cui i vostri idoli sono i nostri imbonitori. E tuttavia non c’è relativismo, perché lo sguardo giudicante prende una sua posizione, si avverte sottopelle un pensiero non arreso. Colpisce i bagnanti / con le guardie armate alle porte, il godimento super protetto dei ricchi borghesi, ma anche la grettezza del tornaconto spicciolo, egoista e traffichino sotto la parvenza del perbenismo formale che tacita le coscienze, segna le regole del vivere civile dove l’ipocrisia impera, dove parole di gente pacifica / che in casa tiene un arsenale / per sparare ai ladri contraddistinguono proprio la sua gente, divenuta estranea, rifiutata.

In questo spazio di confine tratteggiato a sfondo e contesto di vite concrete hanno un ruolo anche i treni, lenti, che lo percorrono, muovono le genti nella quotidianità del lavoro, nella faticosa vita minuta. Emerge una umanità rassegnata, che la poetessa guarda con occhio lucido, disincantato ma non freddo, anzi, capace di una pietas trattenuta, che comprende nel profondo le storture della società contemporanea, le aspre leggi di un mondo globalizzato che macina gli esseri umani senza pietà, le delusioni di chi si muove come sbandato alla ricerca di luoghi in cui poter vivere in modo accettabile.

Molti sono gli aspetti osservati. Come la condizione dei giovani, oggi, desolante, senza prospettive, quegli studenti che siedono nelle classi mattutine o nei corsi serali dove anche i meno giovani concentrano aspettative di miglioramento, fosse anche l’uscita dalla solitudine. O le donne, comprese, per chi non ha figli, in una condizione / scelta / desiderio di maternità, una prospettiva diversa e altra da tante aspettative, dai sogni appena immaginati, speranze deluse sul nascere, perché niente ci incanta più in questo mondo che ha perso ogni innocenza.

È un catalogo di esseri umani alla deriva, e lo sguardo acuto dell’autrice coglie i cuori che battono sotto le vesti del conformismo, con la lucidità che conosce la compassione, anche se incapace di scorgere soluzioni. Gli incontri fugaci restituiscono una immagine che resta negli occhi, la comunicazione di sguardi, anche rapida, svela la fatica, il dolore. Sono ritratti di persone ai margini della vita, come il pittore matto Ligabue, come la donna in bicicletta che per pochi attimi si rivela.

Uno spazio diverso sembra aprirsi nella sezione In me. Dal contesto ampio alla direzione di sguardo soggettiva, dal macro al micro, dall’esterno all’interno, sempre con lo stesso atteggiamento analitico-scientifico. Matura una distanza dal luogo di origine, quel Veneto produttivo da cui scappare: Un’evasione, non una emigrazione.

Il primo approccio è una separazione marcata, dolorosa: Covo rancori / come larve / da nutrire. In questi passaggi si entra nella dimensione più intima, privata, la famiglia; il distacco è meditato e sofferto. Ma ancora l’analisi è spietata e anche la malattia diviene fuga dalle responsabilità, dai pensieri: Quale migliore destino / del morbo dell’oblio / che ti rende / creatura inconsapevole / senza più colpe né rimorsi?. C’è un desiderio irrisolto di comprensione, una ricerca di chiarezza non esaudita, anche la nostalgia della casa antica, della casa una volta rifugio e mondo, si sbriciola: non mi parla non mi ascolta non respira.

Nessuno si salva in questa dimensione di contrasti e opacità, e non vale davvero la pena seguire i percorsi che hanno condotto al disfacimento. Tuttavia la poetessa chiede conto, ormai senza un vero interlocutore, di una disgregazione, della labilità dei ricordi, delle cose accadute da cui è difficile riemergere. Lo specchio deformante del tempo rimanda immagini da lasciare andare. È sempre il rapporto tormentoso con il padre a lacerare.

Allora gli amori danno spazio a possibilità altre, spalancano strade da percorrere come nuove, esplorazioni di vita che racchiude un desiderio di felicità. Anche la voluttà di piacere come un’adolescente in minigonna / che vuole essere guardata / da un ragazzo pallido, indica un impulso estremo di vita, di affetto, e la giovinezza dell’amato è canto di bellezza. O i ricordi di amori adolescenziali sui banchi di scuola sono segnali di una vitalità esplorante.

La raccolta si chiude con una poesia datata: Dicembre 2015. È una sorta di sintesi, riepilogo e insieme proclama di indipendenza, la cifra assoluta che ha scandito la vita e le scelte della poetessa. Non si può dire che questa raccolta sia una vera poesia confessionale, secondo il modello anglosassone cui pure l’autrice rimanda nell’esergo di Wendy Cope, anche se fa trapelare più di un passaggio di vita vissuta. La concentrazione pare piuttosto analitica e non narrativa, l’autrice non cerca uno sfogo, una liberazione verbale; si interroga, invece, su alcuni nodi cruciali che riguardano le relazioni, la soggettività, i rapporti tra le persone. È una poesia matura, anche se prima prova a stampa dell’autrice. Mostra consapevolezza dei temi, lunga meditazione dei percorsi psicologici e di esistenza che si intrecciano e danno luogo ai variabili tessuti della convivenza umana.

Non c’è speranza e non c’è rassegnazione. È nel difficile e scarno territorio intermedio tra le illusioni false e lo scetticismo paralizzante che si colloca questa raccolta, un atto di coraggio e, in fondo, una scelta di fiducia nella parola.

 

Gabriella Musetti