Sindrome del distacco e tregua – Maurizio Cucchi


Sindrome del distacco e tregua - Maurizio Cucchi

Sindrome del distacco e tregua, Maurizio Cucchi (Mondadori 2019).

Sono molte ormai le recensioni uscite su Sindrome del distacco e tregua di Maurizio Cucchi. Da Roberto Galaverni che sulle pagine de La Lettura afferma:

Distacco e tregua (Mondadori), una di queste chiavi d’accesso, che diventa poi una chiave di lettura possibile, si può trovare lì dove l’io poetico parla del suo «poco bagaglio di viaggiatore vile». Sembrerebbe la più quintessenziale delle illuminazioni di poetica. La viltà rimanda infatti al bene e al male, ai comportamenti, alle scelte, e dunque alla centralità della dimensione etica nell’ambito di quella tradizione lombardo-milanese a cui questo poeta appartiene. La figura del viaggiatore si riferisce invece all’assetto conoscitivo, alla forma d’attenzione fondamentale di questa poesia, dal Disperso, il primo libro del 1976, fino a tutto quest’ultimo.

 

A Mary Barbara Tolusso che nelle pagine del Piccolo scrive:

Quello del viaggio, in Maurizio Cucchi, è sempre stato un elemento di poetica. Il viaggio quale elemento conoscitivo, passaggio tra luoghi, case, numeri che quelle case riportano, una sorta di memoria che aderisce alla terra e insieme a un’identità perennemente sospesa. Nell’ultimo libro in versi, “Sindrome del distacco e tregua” (Mondadori, pag. 105 euro 18,00), il viaggio si sviluppa, assume ulteriori valenze, storiche per lo più, ma non solo. Un viaggio che si inabissa in una trama estesa nello spazio e nel tempo e fa emergere trasandate figure di una quotidianità minimale o tragica. O soggetti più nobili, evocati da semplici date scritte sui portoni di rue de l’Abbaye o rue de la Croix. Insomma Cucchi ha tutte le intenzioni di portarci nella sua traversata, da est a ovest: da una Pryp’jat’ avvelenata dal disastro di Černobyl’ a una Nizza decisamente più leggera. O alleggerita forse da chi la attraversa e sa come gestire una tregua. Soprattutto sa che l’adesione, la prensilità all’esistenza, anche la più autentica, può essere improvvisa ma “Non totale”.

 

A Fabrizio Bernini su l’Estroverso:

Sindrome del distacco e tregua di Maurizio Cucchi è un libro improntato sulla più pura e alta forma della poesia, quel dire in versi le differenti, e quasi sempre discordi, sensazioni dell’esistenza, con un tono quieto e dolcissimo: che siano le angosce profonde e dolorose delle nostre perdite o le più miti e docili percezioni delle acquisizioni interne. E la lingua allora si fa portatrice di quei messaggi e quei pensieri che il poeta, cosciente e perenne scolaro della vita, ci consegna con la dedizione e la raffinatezza che soltanto il piacere di sentirsi nel mondo può continuamente restituirci. Ecco che allora il soggetto, nel sempre più frenetico formicolio umano, spesso oppressivo e portatore di orrore, ritrova la sua singolare adesione, un movimento di rinnovata tregua, una sospensione da quella spinta verso una disarmonica partecipazione omologante, seppure questo possa comportare una sindrome del distacco che il poeta avverte nel quotidiano partecipare a un vuoto brulichio di esseri occupati a chissà quale opera immortale.

 

A Paolo Ruffilli su Italian-Poetry:

Per la poesia di Cucchi si può anche parlare di una mitologia del quotidiano, còlta nel suo paesaggio privilegiato, quello urbano: con i suoi interni (case, negozi, bar) e i suoi esterni (strade, quartieri), dove acquistano rilievo le estensioni di una capacità immaginativa. Un’energia intellettuale, continuamente in movimento e tale da trasfigurare da immagine a immagine a partire dai dettagli della realtà, in un vorticoso percorso anche onirico, in questo libro ci trascina da “un immenso cortile di pietra” fino alla cittadina ucraina di Pryp’jat’ contaminata dalla centrale nucleare di Černobyl’ o nella periferia e nei dintorni di Milano o per le vie e le piazze di Nizza. Le presenze vive di figure come Giuseppe El Pinìn o Michelline la vecchia pescivendola ne sono al massimo grado l’esempio potente, in ogni caso decisive nel disegnare un insieme dentro al quale passo dopo passo si evidenzia la riconoscibilità generale, senza per altro mai assurgere a nessun tipo di presunzione e restando anzi al contrario con i piedi ben piantati per terra dentro il proprio ordinario mondo quotidiano eppure nella consapevolezza frantumata di tutto quello che lo trascende, restituendo a chi legge il senso vero e sconcertante della vita.

 

Per concludere con Alberto Bertoni che in prefazione, in maniera estremamente puntuale, scrive:

Accanto all’affabilità e alla pastosità porosa del mondo com’è, si accentua in questa nuova raccolta di Maurizio Cucchi un predicato di frugalità: abito mentale dell’io, ma soprattutto medium per umanizzare la realtà. Sindrome del distacco e tregua si suddivide in otto parti, prive di trama lineare, ove conta «l’insistere virtuale sulla scena / la rapsodia sparsa e sempre minuziosa / delle circostanze». Emblema di poetica implicita, tale sigla rimanda a una compattezza intonativa e di sguardo che si avvale – più che in passato – di modalità davvero sperimentali di scrittura e d’espressione: alla polifonia e drammaturgia metrico-prosodiche di cui Cucchi è maestro si aggiungono qui stacchi in prosa tutti funzionali, oltre a due fotografie pienamente empatiche a un libro magnifico, struggente, necessario. Cronotopo è l’atlante (fisico e interiore), che permette di trascorrere dall’ucraina Pryp’jat’ (a tre Km da Černobyl’) a una Nizza amata e frequentata e alla natìa Milano, messa in emblema dalla centralità del Cenacolo di Leonardo fino ai margini delle sue banlieue, ripercorse attraverso la memoria di un libro in prosa per Cucchi fondamentale come La traversata di Milano (2007): omaggio ai mèntori della sua formazione , Sereni e Raboni. Il tempo di Sindrome del distacco e tregua è invece quello vertiginoso che salda insieme le epoche, dalla preistoria al Quattro e Seicento, fino ai brucianti fotogrammi del presente. Così può librarsi, questo Cucchi ispiratissimo, nella meraviglia aperta di una frugale quotidianità anonima.

 

Un viaggio, oltre ogni dubbio, quello di Maurizio Cucchi all’interno di storia e luoghi nell’intenzione di dire uno stare al mondo. Un esistere, per la sola ragione quasi circuitante che si esiste, che tenta una consapevolezza a ben vedere anacronistica (tra l’altro in qualche modo dichiarata, si veda ad esempio il testo inserito nella sezione Antichi bestioni: Il grande occhio dell’essere / animale chiede ingenuo / e in sé compreso, chiede ragione, / o quasi, del suo essere qui. / Si interroga sul senso, il proprio, / misterioso, eppure, / come a me stesso capita, / senza malizia alcuna, / non trova la risposta ma prosegue, / incantato, bizzarro e silenzioso). Se infatti alcuni decenni fa il desiderio di lasciare una traccia nella memoria, nella storia, in qualche modo salvava il ruolo del poeta nella società ma anche quello dell’uomo (si pensi ai diari dei soldati in guerra), oggi l’individuo si satura di comunicazioni e orpelli vari svestendosi di ogni contestualizzazione sia storica sia geografica (si pensi alla globalizzazione, alla questione di Augé) e di ogni memoria. Esiste l’ora, un qui espanso che ha rinunciato al reale per trasformarsi antropomorficamente in virtuale. E così facendo ha perso il suo ruolo nella società, nel mondo stesso. Tanto l’uomo quanto il poeta.

Maurizio Cucchi indaga, all’interno di una narrazione poetica in versi e prosimetri, lo stare al mondo evitando accuratamente ogni dichiarazione di ruolo ma inevitabilmente sottointendolo. Il mondo non è una certezza, né l’uomo, ma attraverso la presa di coscienza di diversi distacchi e tregue se ne può carpire la fisionomia.

 
Ma poi, e basta qualche ora,
dopo l’orrore della massa accodata,
ecco la tregua benefica che scioglie
la sindrome sinistra e pervasiva
del distacco.
 
Che paesaggio, piano, indifferente,
serenamente bigio nell’oceano,
nelle sue piccole bianche casine silenzione
e io, la spuma tranquilla alle mie spalle,
in appoggio, slittavo in un sorriso nel vento
di improvvisa adesione. Non totale
adesione, ma quasi.
 

Nessun ritratto chiaro, s’intenda, nessuna verità rivelata, ma l’impressione (più che l’intuizione) che sia proprio in questo disegno accennato (attraverso l’esempio di diversi luoghi ed epoche) ciò che effettivamente resta, che fornisce un senso.

Cucchi affronta questo senso non più individuale ma sociale attraverso un atteggiamento prettamente luziano (Sono tornato principiante / e lo considero il mio solo privilegio. / Godo, infatti, di un presente che sorride / aereo a una nuova idea di movimento, / di apertura a un possibile futuro) che è apertura e accettazione della mutabilità, della complessità, della tragicità delle cose che però riflettono una loro intrinseca resilienza. Senza rinunciare a una sferzata sarcastica (si noti infatti che il testo Sono tornato principiante è il primo della sezione Un idiota sociale).

Più che un libro del viaggio si tratta di un libro del senso e della bellezza che prende atto di storie, luoghi, contesti, spogliandosi di preconcetti (poco bagaglio) e di desideri di trasformazione e di trattenimento e intrattenimento (viaggiatore vile) per quella che appare, pagina dopo pagina, una delle operazioni più difficili per un essere umano odierno: l’osservazione pura della realtà.

E vi è una bellezza scoperta, svelata, in questa realtà. Una bellezza talvolta tragica ma che, come si è detto, inevitabilmente restituisce un ruolo. Che non rinuncia a un approccio anche emozionale, si veda la chiusa del libro (Verso la fine o poco prima / seduto al piano aveva detto: / «… Ero così contento…»), ma non vi resta sottomesso. E in questo si nasconde una dichiarazione di poetica tra le più convincenti degli ultimi anni, anche in questo caso posta non come dichiarazione ma come racconto d’altro:

 

Non so perché, ma comincio a infastidirmi di tutto ciò che è lì per niente, che non ha, insomma, una stretta utilità concreta. E che, s’intende, non ha neppure un requisito di bellezza. Perché, dopo tutto, proprio la bellezza… la bellezza disinteressata… ma asciutta, ardua, priva di leggiadre soste ornate, decorate.

Sì, homo aesteticus, se si può dire, e non il solito infelice homo œconomicus.

 
Perché non è economico il reale,
mentre cerchiamo in un estremo
patetico conato di ricrescere
verso l’abisso, ottusi, scossi
dalla sacra idiozia della moneta.
Mi basta, minimale e individuo
come sono, la più modesta
resilienza del soggetto.

 

Alessandro Canzian

 
 
 
 

Di seguito alcuni testi tratti da Sindrome del distacco e tregua di Maurizio Cucchi:

 
 
Eccomi già precipitato, allora,
in questo orrendo formicolio pulsante,
in questo pullulare di infinitesimali
esseri indistinti all’opera,
 
oltre la sana ovatta del sonno
e dello spasmo meccanico
della sua narrazione incongrua.
 
 
 
 
 
 
Amore mio – mi ripetevo – nei vapori
d’un bar
e intanto mi immaginavo
ormai centrifugato e solo
nel vuoto aereo del mondo abbandonato,
popolatissimo di insetti,
abbandonato e perso.
 
 
 
 
 
 
Ma solo dopo 36 ore
l’intero popolo della nuova città
fu finalmente evacuato.
 
Cesio-137. La nube
seccava le mucose della bocca
e tonnellate di materia radioattiva
furono sparse nel vento, portate
dal vento verso nord. Un rilascio
pari a duecento volte Hiroshima
e Nagasaki messe assieme.
 
 
 
 
 
 
Nel caos dell’esito attivo
si annusava l’odore della carne marcia,
si andavano moltiplicando orrori vari
al sistema osseo, al connettivo, al sistema
nervoso e circolatorio.
 
Videro galline dalla cresta nera,
il latte si rapprendeva in polvere
bianca, nacquero sette ermafroditi.
Una moria di animali negli orti
diventati bianchi, nella foresta
rossa. C’era chi sollevava
strisce di pelle dal suo corpo con le mani.
 
Una quiete sinistra e irrevocabile.
 
 
 
 
 
 
Poi cominciarono a tornare.
 
L’uomo aveva gambe con macchie
color cenere e teneva nella vasca
il fuoco per la sua cucina.
 
Erano i coloni della radioattività,
una comunità sghemba di ostinati,
di sopravvissuti. «Del resto
 
ovunque» sussurrava «alcuni
muoiono e altri scampano. E poi
di radiazioni ce n’è dappertutto. Sì,
ho la febbre spesso, e qualche piaga,
ma un po’ di quella roba fa anche bene.»
 
Per la stanchezza cronica
stanno distesi giorni interi
in terra o su un materasso.
 
«Di tanto in tanto ho il vomito,
ma tanto, la vita è così corta…»
 
 
 
 
 
 
L’epilogo quale sia non conta. Mai.
Così il meccanismo, la banale trama. Conta
l’insistere virtuale sulla scena,
la rapsodia sparsa e sempre minuziosa
delle circostanze. Poi
 
perdo l’orientamento, senza paura,
certo, ma deluso, e il dito,
d’improvviso impaziente, torna
curioso a muoversi, a grattare,
prima di depositarsi ormai stremato sull’atlante.
 
 
 
 
 
 
Sono qui, vicino al ponticello delle sirenette
e guardo curioso il laghetto nel parco. Eccomi
così tornato alle notizie della materia più impalpabile
che ospita e alimenta un pullulare sparso
che rassomiglia a noi, microrganismi
senza volto sociali.

 
 
 
 
 
 
Nell’economia frattale nella luce
nelle sue infinite sospensioni
germoglia minutissimo e prezioso
e iridato l’esserci e vorrei
essere io a toccare accarezzare il petalo
e l’ombra stessa delle foglie
che gentili si specchiano.
 
 
 
 
 
 
A volte invece la composizione
ci assorbe nella sua distratta
eleganza semplice così mi chiedo
se sia il caso o la mano
a presiedere infallibile
eppure misteriosa il gioco
sempre compostissimo
di queste insondabili armonie.
 
 
 
 
 
 
Si staglia il pachiderma
in un cupo trionfo cromatico
dove la luce bianchissima via schizza
e l’animale appare in un mistero
come nell’incubo buio dell’infanzia,
quando scavalla nella notte
come l’incubo infantile
nel gorgo della gola.
 
 
 
 
 
 

Osservo dalla mia finestra la chiave di volta della casa di fronte e subito penso a un ritmo scandito perfetto, a una musica, insomma, a un movimento, un movimento del corpo. E insieme penso a una provvisoria matematica esattezza, e soprattutto a un campo più vasto, un campo aperto di possibilità molteplici, o forse infinite, un campo intrecciato di corrispondenze sottili e di rimandi, di percezioni sensoriali diverse, leggibili, appunto, come “foreste di simboli” ai più sconosciute, dove “profumi, colori e suoni” portano in sé il progetto compiuto di un pensiero nascosto.

 
 
 
 
 
 

Minima e insondabile, per quanto, nei suoi comuni dettagli ci venga incontro, ci provochi, è l’ambiguità trasognata della materia. Onde di mare e onde sonore, onde di luce e onde musicali. Onde di materia. Acqua, che prende forma e perde forma, continuamente, e si incide, questa volta in silenzio, o forse, meglio, in armonia con le tracce che l’universo dissemina, per la nostra sorpresa, per la nostra meraviglia e inquietudine. Per la nostra miseria e grandezza.

 
 
 
 
 
 
Amo le donne dei banchi al mercato,
hanno parole di terra, aspre parole
perdute. Ne osservo le mani
così ruvide e gentili e i loro panni,
frusti o eleganti, mentre sbirciano
con la chiara sicurezza navigata
di chi conosce gli uomini e il mondo,
la perdita e il profitto, come Michelline
la vecchia pescivendola arguta,
biondastra; sorridente mentre incarta
e urla, ma con moderazione.
 
 
 
 
 
 
Clairoir
 
Sono pronto, finalmente, a scivolare
in pace indietro, ma è sempre poco,
verso ciò che è stato e non so,
che è, permane, pur senza visibile traccia
e mi ha generato anonimo, nei passi
anonimi, nell’anonimo circolare
nel mondo innumerevole in appellativi
e umili viscere di terrestre terra
remota e ovunque come in quell’anno,
 
in quel numero inciso lassù,
sotto i ferri ingegnosi del clairoir,
dov’è la croce, forse alchemica,
aerato e ancora nitido: 1721,
i Brandeburghesi. Quando le storie ricordano:
la famiglia reale britannica s’inoculò il vaiolo.
 
 
 
 
 
 
La madonna del tombino
 
Su fondo rosso smangiato, in rue
de la Providence, antica, o forse solo
in rue Saint-Hospice. Un volto di donna,
un malinconico volto d’incanto, assorto,
gli occhi rivolti al basso, al vicolo
che va, intenta non so a quale
delicato gesto quotidiano… Il braccio,
il polso, la mano allungata, il bianco
del velo madonnale, il panneggio…
 
Ma quando poi torno a cercarla,
io non la trovo più. Niente.
Come un sogno dissolta,
come mai esistita, e nemmeno, di lei,
una minima impronta. La pioggia,
forse, o la sorte comune del bello
venuto dal basso, da povere mani
sapienti e ormai sciolto, scivolato,
inutile acqua lì sotto nel tombino.
 
 
 
 
 
 
Guardando da un finestrino di casa
le mura cieche e la muta geometria
gialla dei volumi, ho capito.
Se un tempo il dettaglio
era parte di una storia, di una più ampia
narrazione, poi l’orizzonte è mutato
e il dettaglio è ormai la storia stessa,
l’intera narrazione, dove il concreto
minimo si sporge verso l’alto.