S’improvvisa con nulla più che mezze certezze – Valentino Ronchi

 
 
(Presque-rien)
 
Professore, Hélène sta con me, ci avrà visti.
Rientriamo alle nostre case che le famiglie
sono già a tavola e mangiamo in fretta con avidità
e poi in camera a scriverci lettere per il giorno
dopo. Eppure io lo so che potrebbe andar via,
o io magari, chissà, che potrebbe finire, lei capisce:
c’è Hélène, ci sono i giorni assieme, ma è come
un quasi-niente. Quasi-niente che è molto meglio
di niente, potrei dirle, ma lei lo sa di suo – le scrive
queste cose – che è così che si vive e s’improvvisa
con nulla più che mezze certezze. E altro non si fa
che andare avanti e rallentare un attimo talvolta
per segnarsi sul quaderno qualche rigo, qualche traccia.
 
 
 
 
 
 
(Sugli pseudonimi)
 
Quasi inutile che stia qui a dirtelo
tu lo sai, è uno dei nostri segreti da poche
ghinee: quando parlo d’amore sto parlando
d’altro e quando parlo d’altro, s’intuisce
facile sul fondo, sto parlando d’amore.
 
 
 
 
 
 
A C. e C.
 
Con l’inizio dell’estate siamo rimasti i soli
– avete notato? – che pranzano fuori in questo
pergolato di primo caldo. Persino i vecchi
pure loro ci passano ed entrano a cercare il fresco
dai bocchettoni. Non si ricordano di quando
stavano le ore nei giardini nelle trattorie fuori
porta, a parlare della vita com’era e come andava
fatta e pure ci bevevano sopra, il filo d’ombra
dei rampicanti bastava. O, bambini, nelle aie
e nei cortili subito dopo il pranzo fino a sera. Ma
a noi non importa, noi non ci muoviamo da qui
ci stiamo bene, checché ne dica il cameriere. È
la fretta di morire, ragazze mie, la cosa che molti
hanno addosso – così mi pare – e che invece
noi faremo di tutto, insieme, per scansare.
 
 
(Valentino Ronchi, Primo e parziale resoconto di una storia d’amore, nottetempo, 2016)
 
 

Il valore dell’attimo, la provvisorietà del gesto, la sua preziosa capacità di farsi orientamento, sostegno e portatore di senso e direzione nel vivere, nonostante vi sia un naturale istinto a eternare quel momento, a renderlo una condizione continua, perdurante, sempre uguale a sé stessa, in un’illusione ottica che si traduce in delusione, in ansia esistenziale, e infine in “fretta di morire”: questo è possibile leggere in questi testi di Valentino Ronchi.

Il punto di partenza è una storia d’amore che ha il sapore di un passato indeterminato, un “quasi-niente”, proprio per la consapevolezza della sua transitorietà: (anche) questo giustifica il parallelismo “alimentare”, dove “le famiglie / sono già a tavola e mangiamo in fretta con avidità”. “Tempus edax rerum”, scriveva magistralmente Ovidio, a tal proposito: “il tempo divora ogni cosa” – e noi cerchiamo di fare lo stesso con quegli attimi che potrebbero svanire in un nonnulla.

E infatti “io lo so che potrebbe andar via, / o io magari, chissà, che potrebbe finire” … “ci sono i giorni assieme, ma è come / un quasi-niente”. Eppure questa percezione non genera ansia, non genera angoscia: “è molto meglio / di niente, potrei dirle”, perché v’è allo stesso tempo la consapevolezza che “è così che si vive”, ma soprattutto che “s’improvvisa / con nulla più che mezze certezze”: nessuna sicurezza, dunque, se non quella di cogliere il frutto quando in un lampo appare davanti allo sguardo attento, cosciente del suo svanire istantaneo, che ogni esitazione equivale alla perdita, alla rinuncia. E in questo estro dell’attimo “non si fa / che andare avanti”, fermandosi solo di tanto in tanto “per segnarsi sul quaderno qualche rigo, qualche traccia”, che appare altrettanto provvisoria, tutt’altro che tendente all’eterno.

Se già in questo testo la priorità del gesto sulla parola è sottintesa (“potrei dirle” ma non lo faccio, si potrebbe sottolineare), nel secondo Ronchi è ancora più chiaro: “Quasi inutile che stia qui a dirtelo / tu lo sai”. L’occasione d’amore serve a ribadire l’inferiorità della parola rispetto alla condotta, al comportamento, al gesto, che arriva a contraddire completamente l’apparenza semantica del dire: “quando parlo d’amore sto parlando / d’altro e quando parlo d’altro … sto parlando d’amore”, e il sodalizio sentimentale è proprio suggellato da questa consapevolezza condivisa, che conferma una prossimità intellettiva e – conseguentemente – emotiva e umana.
Si potrebbe citare un testo di Mario Ramous, dal significato analogo, che ha molto ponderato, anch’egli, sull’insufficienza e i limiti della parola, soprattutto in ambito sentimentale: “devo dire: sentire la tua voce; / e non ho altro che possa aggiungere con le parole” (da “Battage per Valeria, Cappelli, 1973); la “voce” come fenomeno sensibile, più che le parole proferite, appunto: sentire la voce piuttosto che ascoltare le parole, che diventano inutili – e non vi è niente da aggiungere.

L’ultimo testo, infine, mettendo a confronto la vecchia abitudine di pranzare fuori “in questo / pergolato di primo caldo” piuttosto che entrare “a cercare il fresco”, sembra alludere a quanto evidenziato finora: è più opportuno accogliere la vita nella sua provvisoria e terribile bellezza piuttosto che cercare un conforto illusorio ma falso, artificiale, prediligendo il fresco dei “bocchettoni” al “filo d’ombra / dei rampicanti”.

“noi non ci muoviamo da qui / ci stiamo bene, checché ne dica il cameriere” – e fuggire da questa lucida percezione dell’attimo, doloroso e commovente, istantaneo e fragile, rifugiandosi in conforti all’ansia esistenziale che può scaturire dalla non accettazione della sua transitorietà (che resta irrisolta e freneticamente sofferente, nonostante si senta al sicuro, al “fresco”) si rivela essere soltanto “fretta di morire, ragazze mie, la cosa che molti / hanno addosso”, la stessa che “invece / noi faremo di tutto, insieme, per scansare”.

Il messaggio sembra essere questo, dunque: gustare la densa e continua istantaneità dei momenti del nostro esistere, nel loro continuo apparire e svanire, strappando il morso al sapore intenso e spesso terribile del frutto dell’attimo, piuttosto che consolarsi nell’illusione di un’alternativa senza tempo e senza dolore – nient’altro che un’intimidita propensione verso una morte in vita – finché dura – e in ultima istanza, uno spreco del breve tempo che ci è concesso.

Mario Famularo