Siamo quest’oggi chiaro che si spegne – Francesco Scarabicchi

 
 
Biglietto di settembre
 
«Questa pioggia che senti
giovane lungo i muri
 
picchia, se fai silenzio,
ai nostri vetri,
 
bagna inferriate e foglie,
crolla dalle grondaie,
 
allaga il buio,
cancella ponti e polvere
 
e scompare.»
 
 
 
 
Prologo
 
Sanguina a me di fianco l’ora bianca,
ospita un altro inverno, non capisce
come ancora si ostini, in tanta neve,
a rassegnarsi al mondo, al suo crudele
volgere in niente il niente, dileguando
oltre il vuoto dei giorni, in un addio
di bisbigli caduti nella luce.
 
 
 
 
2
 
«Della perduta vita non so niente,
ché sempre se ne va per chissà dove,
 
resa o voltata a un angolo del giorno,
mesi che può la notte cancellare
 
sulla soglia gelata del mattino.
Non c’è altro che adesso e adesso ancora:
 
se appena lo pronunci si dissolve
in un adesso che non è più niente.
 
Siamo quest’oggi chiaro che si spegne,
luce che lascia gli occhi con dolcezza,
 
uomini che di spalle vanno piano,
seguito della storia, sogno, nube,
 
ombre che di ogni età fanno silenzio,
onde che si cancellano nel mare. »
 
 

(Francesco Scarabicchi, “L’esperienza della neve”, Donzelli, 2003)

 
 

In questi testi di Francesco Scarabicchi si assiste a un’analisi della provvisorietà e della natura sfuggente e impermanente del mondo e dei suoi fenomeni, che parte dagli elementi circostanti fino ad aderire all’esistenza e alla vita dell’uomo, tentando di recuperare una possibilità di senso nel valore dell’attimo, mutevole ed evanescente, ma pur sempre prezioso.

Nel primo testo è la pioggia, “che senti giovane lungo i muri”, a tratteggiare il mondo che scorre istantaneo, bagnando “inferriate e foglie”, cancellando “ponti e polvere”, allagando “il buio” per, infine, scomparire.

L’accostamento dell’aggettivo “giovane” a un elemento liquido, pervasivo, rappresenta un simbolo di quella natura incosciente della giovinezza, che riesce a condizionare il mondo circostante, riempiendo l’apparente vuoto di direzione e di sentimento (“il buio”), conseguenza della ragione e della consapevolezza – ed è in ogni caso destinata a scomparire, come la pioggia, lasciando appena una traccia provvisoria del suo passaggio.

Nel secondo testo sono l’inverno e la neve a diventare simbolo del tempo che cancella ogni traccia del nostro esserci, dei nostri ricordi, annientando la sequela dei nostri attimi in un bianco indistinto e silenzioso.

Questa testimonianza è resa non senza dolorosa partecipazione (“Sanguina a me di fianco l’ora bianca”), ribadendo la ciclicità ineluttabile del fenomeno (“un altro inverno”): Scarabicchi si chiede come sia possibile, “in tanta neve … rassegnarsi al mondo … al suo crudele / volgere in niente il niente, dileguando / oltre il volgere dei giorni, in un addio / di bisbigli caduti nella luce”.

Quella che appare come un’amara resa allo svanire continuo ed irrecuperabile dei momenti più cari e preziosi, si risolve però in una celebrazione dell’attimo, dell’istantaneità provvisoria del vivere, in cui precipitarsi con consapevole e rinnovata incoscienza, per trarre la linfa preziosa dell’ora e ricongiungersi all’universalità impersonale del divenire, perché “non c’è altro che adesso e adesso ancora: / se appena lo pronunci si dissolve / in un adesso che non è più niente.”

Nonostante “della perduta vita” non si sappia nulla, se non che la notte può cancellarla in un istante, “sulla soglia gelata del mattino”, e anche il futuro sia imprevedibile (“sempre se ne va per chissà dove”), Scarabicchi ci ricorda che “Siamo quest’oggi chiaro che si spegne / luce che lascia gli occhi con dolcezza … onde che si cancellano nel mare”.

Ed è in quest’accettazione della natura impermanente del nostro tempo, della provvisorietà nella nostra identità e coscienza, nell’accettazione del ricongiungersi del particolare all’universale, dell’attimo al tempo, delle “onde” al “mare”, che è possibile trovare una prospettiva di senso, una “dolcezza”, senza avvertire lo sgretolarsi dei ricordi e degli attimi come un’emorragia di significato, ma come una caratteristica naturale e preziosa dell’esistere.

Mario Famularo