Sergio Pasquandrea

Sergio Pasquandrea

 
 

Michele Paoletti intervista Sergio Pasquandrea

 
 

Sergio Pasquandrea è nato a San Severo (FG) nel 1975. Dai primi anni Novanta vive a Perugia, dove insegna Lettere in un liceo. Nel 2014 è uscita la sua prima silloge, intitolata Approssimazioni (Pietre Vive/iCentoLillo) seguita da Oltre il margine (Fara, 2015), Un posto per la buona stagione (Qudu, 2016), Approssimazioni e convergenze (Pietre Vive, 2017) e Sono un deserto (Lietocolle, 2019). Ha inoltre pubblicato due plaquette: Topografia della solitudine (in Pubblica con noi, Fara 2010; seconda edizione, in e-book e audiolibro: Pietre Vive, 2017) e Parole agli assenti (in Contatti, Smasher 2011). Collabora come giornalista e critico musicale con il bimestrale “Jazzit” e con i blog “Nazione Indiana”, “La poesia e lo spirito”, “Jazz nel pomeriggio”, “Words Social Forum”, “Artmaker”, “Carte Sensibili”. Ha pubblicato nel 2014 il volume di racconti Volevo essere Bill Evans (Fara) e nel 2015 il saggio Breve storia del pianoforte jazz. Un racconto in bianco e in nero (Arcana Editrice). In uscita, per EDT, il saggio Brad Mehldau. Ritratto di un pianista eclettico, scritto in collaborazione con Carlo Morena.

 
 

Come nascono le tue poesie?

Come nascevano, dovrei dire. Perché ormai da un paio d’anni la vena si è rinsecchita e scrivo solo cosette d’occasione, spesso ironiche, ma che dubito pubblicherò mai. Del resto, dopo un libro intitolato “Sono un deserto”, l’aridità è il minimo. Detto questo, ti dico onestamente che non lo so, non ho idea di come nascano le poesie. Non sono mai riuscito a trovare una regola. Spesso nascono da parole altrui, ma non è una regola generale. Nascono spesso in momenti di quiete, di silenzio, ma anche questo non è sempre valido. So soltanto che, certe volte, alcune parole, o accostamenti di parole, entrano in risonanza le une con le altre e generano altre parole. Quando succede, l’unica cosa da fare è non forzare il processo, lasciare che il tutto si sviluppi da solo, come un seme che genera una pianta. Meno ci si pensa, meglio è, perché in questo caso il pensiero fa solo danni. Pensare prima, o dopo, mai durante. Poi, devo confessare che in genere i testi nascono già più o meno nella loro forma definitiva, buona o cattiva che sia: tutto ciò che faccio in seguito è sgrossare, eliminare il superfluo.

 

Quali sono i tuoi autori di riferimento?

Dovrei fare una lista troppo lunga per essere contenuta in questo articolo, e alla fine sarebbe un elenco di nomi che direbbe poco. Ti posso dire quali sono gli autori citati esplicitamente nel mio ultimo libro: T.S. Eliot (due volte), Franco Fortini, Eugenio Montale, Petrarca, la Bibbia (anch’essa due volte), Giorgio Caproni. Manca Vittorio Sereni, che ultimamente sto rileggendo molto. E poi c’è un autore che conosceranno forse in cinquanta, ma che secondo me è una delle voci più pure che ci siano oggi in Italia: Walter Cremonte (butto lì il suo nome, nella speranza che qualcuno se ne interessi).

In generale, mi piacciono gli autori di lingua anglosassone, nei quali trovo un’asciuttezza, un’aderenza alle cose (in inglese dicono matter-of-factness), un’assenza di retorica che sono per molti versi un antidoto alla tradizione italiana, nella quale comunque mi sono formato e in cui, nonostate tutto, mi riconosco.

 

Credi sarebbe utile nelle scuole approfondire i poeti contemporanei, soprattutto italiani?

Senz’altro. Il problema è che i miei colleghi docenti, troppo spesso (direi: quasi sempre), non li conoscono, gli autori contemporanei. Ricordo ancora il giorno in cui, giovane docente idealista di fresca nomina, parlavo di Sereni a una collega, la quale a un certo punto mi confessò candidamente di non avere la minima idea di chi fosse. Ultimamente ho sentito dire a un docente d’italiano che, parole testuali, “la letteratura italiana degli ultimi cinquant’anni non ha prodotto niente”. Questa è la situazione.

Ma dicevo: parlarne sarebbe utile, senz’altro. Specialmente i poeti che possono dire di più ai giovani, e che non necessariamente coincidono con i poeti più “facili”. Ricordo ad esempio una bellissima lezione in cui usai T.S. di Milo De Angelis. Credo che sarebbe utile soprattutto alle elementari (i bambini capiscono al volo, senza troppi filtri intellettuali), alle medie (dove troppo spesso gli adolescenti si disamorano alla lettura), tutt’al più al biennio delle superiori (dove la letteratura viene il più delle volte avvilita nel mero studio di metrica e figure retoriche). Al triennio la vedo più difficile, perché ci si mette di mezzo il programma di letteratura, che in Italia ha ancora un’impostazione rigidamente storicistica. Ma volendo si potrebbe fare anche lì (“nihil difficile volenti”), se ai docenti si lasciasse un po’ più di tempo e un po’ più di libertà d’insegnamento. Qui, però, si aprirebbe un vaso di Pandora, che preferisco richiudere subito.

 

Parliamo adesso della tua ultima raccolta, “Sono un deserto”, appena uscita per Lietocolle. Vuoi raccontarci il percorso di scrittura?

È un libro che raccoglie alcuni dei miei versi più recenti e alcuni dei più antichi. Il grosso delle poesie è stato scritto, grosso modo, tra il 2015 e il 2017, ma c’è un’intera sezione, intitolata “Le cose e gli animali”, i cui testi risalgono quasi tutti ad almeno dieci-quindici anni fa: doveva rientrare in un altro libro, ma alla fine avevo deciso di scartarla perché mi pareva stonasse con il resto. E sai qual è la cosa strana? Ho scoperto che non c’è frattura fra i testi vecchi e quelli nuovi, anzi a rileggerli adesso i più freschi sembrano proprio quelli vecchi.

A essere onesto, mi pare che questo libro per molti versi chiuda un cerchio: per un periodo, avevo adottato uno stile molto chiuso, cerebrale, quasi ermetico, che però aveva finito per stancarmi. Volevo tornare a quella concretezza che caratterizzava le cose che scrivevo quando ero più giovane. Se poi ci sono riuscito, lo diranno i lettori.

Certo è che, nel mettere insieme i testi, ho lavorato volutamente per discontinuità: ogni sezione è diversa dalla precedente per temi e per stile. A volte, persino ogni poesia è diversa da quella che la precede e la segue. C’è un filo conduttore, ma non chiedermi quale sia perché non lo dirò.

 

Nei testi si percepisce un senso di sconfitta, una resa silenziosa di fronte alle cose del mondo. É così?

Sì, è così, ma la sconfitta è più generale. È una sconfitta anche nei confronti della politica, e persino della poesia stessa. Io ho quarantaquattro anni, sono cresciuto tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta; appartengo a una generazione che ha conosciuto molte fiammate di speranza (il crollo dei muri, la fine della Prima Repubblica, i trattati europei) e poi le ha viste cadere tutte, una dopo l’altra: le guerre etniche, le due Guerre del Golfo, il risveglio dei nazionalismi, l’11 settembre, il capitalismo imperante, ormai senza più remore nemmeno morali, la globalizzazione trasformata in un incubo orwelliano. Una generazione che è dopo tutto e prima di niente. Se mi guardo intorno, specialmente in Italia, fatico ad essere ottimista, soprattutto in quanto padre di due figli che tra poco saranno adolescenti. “I’ve seen the future, brother: it is murder”, cantava Leonard Cohen nel 1994, e sono sempre più convinto che avesse ragione.

 

Quando parli di poesie, scrivi: “Devi sperare che prendano / presto il volo”, oppure dici che vuoi cercare di ucciderle quando sono ancora in procinto di nascere. Perché ti spaventa questa feroce verità della poesia? Questa sua capacità di perforare il petto?

Perché non sono più sicuro che le poesie dicano la verità. Per la maggior parte non la dicono, o è una verità che non serve a niente, se non ad appagare l’ego dell’autore. “Ah! tout est bu, tout est mangé! Plus rien à dire! / Seul, un poème un peu niais qu’on jette au feu”, lo diceva Verlaine già centotrentacinque anni fa.

C’è un altro testo, nel libro, che si chiama “Contro la poesia”, e recita: “È una cosa tanto brutta / scrivere poesie // bisogna essere ben sazi / ma allo stesso tempo sentirsi insoddisfatti // bisogna guardare a lungo lo specchio / fingendo di provare fastidio // auscultarsi le viscere / alla ricerca di un minuscolo dolore // e quando lo si è trovato / compiacersi di un aggettivo o di una callida iunctura // bisogna credersi molto importanti / per scrivere poesie”. (È un atto d’accusa, in realtà, più contro i poeti che contro la poesia in sé).

Perché scrivo, allora? Una delle sezioni in cui è diviso il libro ha in esergo un verso di Fortini: “Nulla è sicuro, ma scrivi”. È l’unica risposta che ho trovato, ma è provvisoria e vacillante. Infatti ho praticamente smesso di scrivere. E nei testi del libro ho cercato di far cadere il più possibile tutte le barriere retoriche, di arrivare ai fatti nudi e crudi.

 

Trasformo un passaggio della prefazione di Antonio Lillo in una domanda: sei un deserto o vorresti diventarlo? E perché?

Non è detto che il deserto sia qualcosa di brutto. Il deserto è un posto pulito, senza orpelli, che invita a confrontarsi con se stessi. Il deserto è l’essenzialità più assoluta. Non a caso, le tre grandi religioni monoteistiche sono nate tutte nel deserto. Nel caso particolare di questo libro, il titolo è una citazione da un sonetto di Petrarca (“e cantar augelletti, e fiorir piagge, / e ‘n belle donne oneste atti soavi / sono un deserto, e fere aspre e selvagge), ma esprime soprattutto un desiderio di far piazza pulita, di sgombrare il campo e contemplare il vuoto in tutta la sua nitidezza. Desiderio che, peraltro, risuona con molte altre cose che sto vivendo in questo periodo della mia vita. C’è troppo frastuono, troppa folla. C’è bisogno di spazio, di silenzio.

 
 
 
 
Apnea
 
La poesia dovrebbe parlare anche di questo
del momento in cui resti immerso nel grigio
e non succede assolutamente nulla
nessuno scende dalle scale
nessuno ti interrompe il respiro
con parole fuori sincrono e non pensi
assolutamente a nulla non provi
nemmeno a spostare il braccio intorpidito fosse
per te lasceresti fare alla muscolatura involontaria
i polmoni si regolano da sé il cuore
pompa il minimo indispensabile
qualunque pensiero declina appena lanciato
la poesia dovrebbe scendere fino a questo punto
infimo del metabolismo animale
per mettersi alla prova esercitarsi all’apnea
sono bellissime le foglie lassù in alto
ma nessuno dovrà toccarle mai.
 
 
 
 
 
 
Le mani
 
Le mani sono belle perché sono vuote
e quando sono vuote puoi pensarci dentro
quello che ti pare. La faccia
ci sta tutta senza residui. Nelle mani a coppa
c’entrava Elena appena nata e forse qualcosa
persino ci avanzava. E non dirmi che è un caso
se ognuno dei tuoi seni ha la dimensione giusta
dal polso alla punta delle dita. Però dicevo
quando le mani sono vuote
ecco allora mi ricordo che Leonardo
me le toccò mi disse quanto erano morbide
lui che l’avevano messo ad aiutare lo zio idraulico
lì aveva imparato tutte quelle belle parolacce
e di sicuro aveva le idee più chiare di me.
Io con le mani sbagliavo sempre misura
i palloni andavano dove gli pareva i fianchi
delle ragazze sgusciavano prima che potessi fermarli.
È stato già un miracolo arrestare la caduta
fosse stato per loro sarebbero rimaste lì
appese alle braccia. Ecco: che farne
di queste mani vuote di tutta quest’aria?
 
 
 
 
 
 
(Dis)somiglianze
 
Il bambino di Aleppo
ha la faccia di mio figlio.
Non sto parlando per metafore
e nemmeno sto dicendo che gli somiglia.
Il bambino di Aleppo
ha i capelli di mio figlio il suo naso
l’espressione dei suoi occhi
quando sta per addormentarsi
il suo petto liscio nel punto
in cui soffre di più il solletico
persino la stessa macchia di sangue
sulla fronte di quando era caduto
dalla bicicletta dritto contro un sasso.
Devo correre di sopra alzargli la maglietta
controllare che non abbia sullo sterno
quei due occhielli di carne bruciata
per convincermi che non sia lui
che sia davvero lì a giocare in camera sua.
 
 
 
 
Poesie tratte dalla raccolta Sono un deserto (Lietocolle, 2019)