Semiotica del male – Flaminia Cruciani

 

Semiotica del male di Flaminia Cruciani (Campanotto Editore 2016, prefazione di Tomaso Kemeny) è un libro che appare fin dalle sue primissime pagine complesso e privo di maschere. Un’opera che si allontana dal linguaggio contemporaneo attingendo a un registro non convenzionale eppure intriso intensamente di realtà, teso alla costruzione di un suo linguaggio che è la sua possibilità di svelare (non salvare) la realtà.

Flaminia Cruciani analizza il male quasi compiendo un’iconoclastia della sua definizione odierna (cioè fa conseguire un’azione alla dichiarazione che è il titolo): Ricorda c’è troppo amore nell’odio / vivono l’uno dell’altro. Questa infatti è un’opera che va letta nel contesto storico in cui ci troviamo analizzando i presupposti della nostra capacità critica. Dove apparentemente il male è un concetto netto (ma la medesima cosa non si può dire del bene) ma che nella sua semplificazione si confonde e ci confonde. Restituendoci una sorta di grata precaria sulla quale vivere, muoverci e pensare.

In Flaminia Cruciani l’analisi è ferocemente vissuta in prima persona fino alla propria storia personale e intimità (anche sessuale: poi l’oggi si fece talamo / la mia vita è fiorita a morte) ma prescinde dal linguaggio contemporaneo perché in esso non vi trova più appigli, punti di riferimento o giustificazioni. Non vi trova più chiarezza nella forma di un rapporto diretto e immediato con l’altro (cosa che dovrebbe essere il linguaggio). Non a caso l’opera si apre appoggiandosi a una riflessione di Emmanuel Lévinas sul volto: è un’epifania, che annuncia l’infinito, invita all’etica e ci parla del divino arrivando a suggerire che per questo quando l’uomo compie il male copre il volto, copre il segno irriducibile del suo rapporto con l’infinito.

Perché l’uomo è il testamento di dio. Se è attraverso il volto dell’altro che il divino si pronuncia, in una parola che è ascolto, e il suo è un suono creatore, il verbo, come ci insegnano le più antiche cosmogonie, il male è tutte quelle volte in cui il divino tace nell’uomo e s’interrompe l’infinito processo sonoro della creazione. Il male dunque è assenza di musica .

Il male però appare come un percorso necessario all’uomo: Quel male era necessario allora / a comprendere, a rivelare / il mondo, a difendersi. / Quel male era un diritto alla vita […] Solo chi attraversa una notte senza lucciole / potrà domare l’esistenza. In un contesto, ripeto, quale il nostro, dove l’abbassamento della capacità di comprensione crea etichette preconfezionate, sostanzialmente vuote all’interno, la Cruciani dichiara la necessità del male all’interno degli accadimenti umani per gli stessi accadimenti umani: qui si moriva credendo di vivere, ma sepolti […] Mi serve il male, mi serve a capire.

Nel momento in cui il male viene accettato nella sua realtà viene anche ridimensionato, compreso (viene anche strappato alla possibilità di una manipolazione esterna, direi io prescindendo dal libro stesso): Il mio nome strappato / ha cambiato copione / io l’ho posata la croce / l’ho smontata e coi suoi pezzi di legno / costruito strumenti musicali / per riempire di musica la vita. / Perchè io sono Dioniso. Riferendosi quindi a quel il male è assenza di musica iniziale.

Ma il riferimento è a Dioniso, il dio del vino e della natura più animale dell’uomo. Il dio che ricorda che bisogna accettare la propria parte più primordiale e selvaggia perché altrimenti esplode se repressa. Il dio del caos che è la vitalità dell’uomo e che in Cruciani diventa linguaggio e motivo del linguaggio: Siediti accanto a me ora / fammi un segno di frumento sulla croce / recito il breviario blasfemo della perdizione. / Io sono condannata a vita. Anche se non sempre soddisfa come forse si vorrebbe sottolineando la componente dolorosa di quest’opera: Ora è come ieri e domani / la stessa bevanda d’ombra / l’illimitato sazia il mio cuore / il futuro non ha le ali / le parole si mangiano / ma non nutrono.

In questa vitalità furiosa, quasi sabbatica, il ribaltamento ossimorico dichiara a tratti la possibilità umana: Immergo i piedi nello Stige / ascolto la parola dei morti. / Ognuno solleva la propria natura / in basso quanto vuole. / Ognuno vince la sconfitta che può. Il concetto di volto poi torna potentemente: Mi dici di fissare l’autostrada, i fari, le targhe, / sei preoccupato che io possa / scomparire senza lasciare traccia organica / che io possa seguire il verso del fuoco / che mi brucia duro nel petto / che possa dissolvermi come sale / e tu non possa più tenere il mio volto / fra le mani e pronunciare il mio nome / che io possa tramontare per quel richiamo / in perfetta umiltà, battendo sul tempo il tempo / andando via dimenticando tutto / guardando sfuggire la vita senza dolore / portata via come su un nastro. / Ma il mio volto non è mai esistito, / forse non lo sai. / Insieme piansero il cielo.

La chiusa dell’opera dichiara in qualche modo l’esigenza di questa vitalità bruciante e sfasata rispetto alla cultura dominante costituendo un ulteriore ossimoro che, nella visione poetica, dichiara e diventa verità: Dammi un’ora sola, l’ultima / per farmi il segno della croce sulle rovine di Sodoma / rovesciare i sacramenti sul mio cuore appagato / strappare il velo all’amore che non ho udito / sulle mani calde che non mi hanno accolto. / Fai leva sulla mia creatura / con l’elmo di Gerusalemme / ubriacami di sete / indosserò una bocca beata / che riderà anche di te. / Luciderò col Mandylion / la mia corazza eretica / ad arte la luciderò, che accechi / chi provi ancora a guardarci dentro. / Amen. Un riferimento all’eresia che inevitabilmente ricorda tutti quegli eretici vittime non di una verità ma di una cecità culturale a loro contemporanea.

E proprio a proposito di questi ultimi versi il prefatore Tomaso Kemeny afferma: La scrittura difende il soggetto della scrittura dal mondo e dall’immobilismo prescritto non solo al femminile e simultaneamente prefigura di farla pagare cara a chi provi ridurre le sue differenze secondo le modalità dei codici culturali e comportamentali noti […] Rifiutando interpretazioni rassicuranti la poetessa non petrarcheggia, quindi, sul male, ma evoca frammenti di esistenza come effettuale rischio al proprio esserci […] Il male imposto dalla Realtà non viene mascherato, truccato, ma costretto a incedere sotto i riflettori del senso analogico, come funtivo fondante le forme del comprensibile, una vera chiave ermeneutica […] Ma Flaminia Cruciani respinge con ira ed eroismo il richiamo del tripudio eudemonico, pare chiaro come il soggetto metamorfico della scrittura preferisca morire piuttosto che vivere come un comune mortale.

 
 
 
 
 
 
Gli innominati
  
L’umanità sprofonda sotto
il peso della sua sentenza spirituale
nelle ferite inferte dalla menzogna,
banchi di nebbia
il mezzo dell’amore che ti portavi addosso
a confessione come un sacco
ti consumava il doppio di vita
un abbraccio di incertezza e fango
colmava il vuoto all’eternità.
Il vuoto si cimenta in un assolo assordante
colmo di ignoranza.
Ulcere sotto i miei piedi
procedo oltre il turno del mio dolore.
Il soffitto screpolato del mondo
crolla otto volte più pesante e brusco
tagliami la testa di argilla
schiuderò palpebre di paglia,
parlerò, d’accordo, demonio tentatore
racconterò in un canone breve
quella notte di novilunio durata anni
dirò lo sciagurato dente riposto
come refuso in bocca altrui
canterò le variazioni interrogative
che hanno accompagnato il diritto all’origine
intonerò piangendo l’urto delle virtù carnali
racconterò quelle stagioni silvestri
dagli innumerevoli petali
navigate senza albero maestro.
Vale appena un battito
e addormenterei il tempo ancora
lo incappuccerei alla spiacevole
circostanza dell’umanità posseduta
dall’equivoco nel suo apparato argenteo
riflessa su estremità di deliri irripetibili
periferie dell’umanità
riposte in illustri famiglie.
 
 
 
 
 
 
 
 
La struttura del mio tempo è alterata
nel mio territorio di selce irreversibile
scorre un sacrificio primitivo
zampe di fiera sulla mia
trabeazione di cera liquefatta
scivolerò in corsa su un rimedio
sarò un possesso silenziosa
imbavagliata, crocefissa al tempo
griderò amen girandomi di spalle alla festa autunnale
senza dio sarò fuoco a fuoco
gli lascerò in mano la mia vita in fiamme.
  
Momento, azione, siamo
in abisso, in sordina
schianto atemporale hai
attraversato il mio tuono
è primavera la mia amante eterna
salto in una stazione di luce
senza testimoni, vittima di un pretesto
infilo un passo a testa in giù
in una contrazione vivente
qui trovo l’almanacco dell’ineffabile
gli angeli si spogliano.
  
Leccherò l’oscurità
fino a esaurirla.
 
 
 
 
 
 
 
 
In altre terre accadeva l’umano
ma io non volevo spogliare
quel dominio vitale
non volevo trattenere quel rimorso
sorridere ai dubbi rapaci
qui si moriva credendo di vivere, ma sepolti,
svincolati dal tempo non importa
svincolati dal genere umano,
atrocità, crimini, fame, guerre nucleari
tutto si propagava fuori da quella
perfetta repubblica dell’indifferenza
oltre i grovigli del superfluo.
Ostentavano sentenze guadagnando stelle
in un’inerzia scuffiata a ridosso del vero 
tronfi di antenati illustri
con la bocca chiusa curvavo le mie vene
costringevo, falsificavo
negavo l’altrove in quel divieto di sosta.
Questa la mia follia indenne.
  
Mi serve il male, mi serve a capire.
  
Non ero re su comignoli a dominare il cielo
era la mia follia
spalle, sangue, vesti altrove
non importa sbarcare
dopo aver finito il fiato
dopo quel dialogo con la luna immota, opaca
che aveva riparato il timpano a vaticini.
 
 
 
 
 
 
 
 
Inshallah
  
Sono in un paese straniero
mi hanno catturata in un luogo dissestato dell’esistenza
mi interrogano al serraglio barbaro
delle domande impossibili
di come si traccia una lettera sconosciuta
di un alfabeto inesistente
mi chiedono di pronunciare
il centesimo nome di dio
se ho letto quel manoscritto mai scritto
se i demoni sono scappati dalle sue miniature
e so tenere fermo l’asse del fuoco
se so misurare la coppa del sole con il volto santo
e posso addomesticare il vento.
Devo convincerli come un mercante
che gli porterò quei frutti invisibili
che posseggo il vino che inebrierà dio.
Ma non so le regole
è come tirare a dadi l’esistenza
e poi decideranno in modo indiscriminato la mia sorte.
Chiedo ospitalità a quei volti, ma non sorridono
sono tamburi che battono a ridosso del sacrificio
e non lasciano scampo.
A quello prima di me
senza nessun motivo comprensibile
e in modo implacabile
hanno tagliato la testa in un colpo solo
affidandolo al battito eterno.
Io devo solo cavarmela e sperare.