Sapor di tango – 25 marzo, Firenze


 
 

SAPOR DI TANGO

25 marzo 2017

Centro di Cultura e Formazione di Firenze

 

letture con Benedetta Tosi e Francesca Vannucci

musica con Edoardo Michelozzi ed Emanuele Virno

 

presentazione a cura di Brigidina Gentile

 
 
 
 

ITACA è una fortezza di parole. Per Francisca Aguirre le parole e la loro eco sono un’ancora di salvezza. Lei, una Penelope del nostro tempo, conosce le sue potenzialità e i suoi abissi, e sa che la sua isola, la sua intimità, è il rifugio da dove combattere la desolante tristezza di un passato segnato dalla guerra, dalla perdita dell’essere amato, dalla fame e dalla consapevolezza del trascorrere del tempo. Per la poeta di Alicante, Itaca è un potente epicentro da cui guardare il mare e la vita senza paura.”.

Elisa Constanza Zamora Pérez

 
 

Alla ricerca di Itaca

Brigidina Gentile

 

Non c’è mai una versione definitiva e nemmeno questa lo è, perché Itaca è un’opera da tessere e stessere, proprio come la tela di Penelope. Francisca Aguirre lo sa bene, e lo so anch’io perché ho tessuto, disfacendo parole, giorno e notte sul telaio di Itaca, proprio come Penelope.

Francisca, che gli amici chiamano amorevolmente e simpaticamente Paca, ha scritto Itaca molti anni fa, par­lando ‒ come lei stessa mi ha detto ‒ di «quei tempi felici in cui eravamo tanto disgraziati», i tempi della guerra ci­vile in Spagna, del franchismo, e delle conseguenze sulla sua e la vita di tutti gli spagnoli. Vi propongo la lettura di questa opera preziosa, la pri­ma raccolta di poesie di Paca: Itaca, pubblicata nel 1972 e Premio Leopoldo Panero nel 1971, perché la storia si ripe­te e facilmente ce ne dimentichiamo mentre andiamo alla ricerca di una chiave per comprendere questo presente di migrazioni e guerre, rifugiati e violenze, di generale indif­ferenza. Perché ritengo che questa poesia senza compro­messi, dura, secca, che sa arrivare nel profondo, scuote, fa riflettere, fermarsi a pensare. Per vivere a colpi di poesia e non a colpi di mortaio. Perché la poesia è vita e scorre nel­le vene del pensiero incessantemente dando vita ad altre vite. Perché, parafrasando Juan Vicente Piqueras, ci sono giorni e ci sono poesie.

[…]

Paca, che è anche autrice di un libro di memorie Espeji­to, espejito (1995) e un libro di racconti Que planche Rosa Luxemburgo (2002), ama il sonetto e lo ritiene un regalo degli dei. Per me è la sua poesia ad essere un regalo per­ché è una poesia che chiede aiuto e al tempo stesso aiuta, proprio come il mare, animale equivoco, che tocca il cielo e non si ferma mai, unisce e allontana le isole della nostra immaginazione ed è l’unico mezzo per arrivare a Itaca, luogo dell’anima.

Juan Vicente Piqueras scrive di Itaca: Penelope non si inganna. Sa bene di non essere la protagonista dell’Odissea con la O maiuscola ma della sua minuscola odissea sì, fatta di costanza, pazienza e abilità nel tessere poesie d’amore e solitudine. Poesie che chiedono aiuto e fanno compagnia.

Penelope sa che sia la mitologia greca che la storia della poesia spagnola le hanno attribuito il ruolo secondario di regina abbandonata, donna di casa, che tesse alla penombra della sua attesa. Conosce e accetta il suo destino, assediata dallo sconforto e dal disinganno. Sa che Nessuno, a modo suo, la ama. Sa che la rassegnazione non è meno onorevole dell’indignazione. E sa che lei non è una donna rassegnata né indignata ma una persona degna che ha la fortuna e la disgrazia di capire gli altri, e per questo incapace di giudicarli.

Tesse e scrive per farsi compagnia, per cercare di comprendere quel che le accade e anche ciò che non le accade. Scrivere è il suo modo di piangere, pregare, aspettare, ringraziare, chiedere perdono. È la sua maniera di stare da sola, di capire ciò che avverte, di sentire, vivere, e imparare, verso dopo verso, a prescindere.

Penelope sa che a convertirla nella madre di Ulisse sono stati il suo modo di amare e la sua infanzia ferita. A volte pensa che forse è stato per questo che lui se ne andò in guerra, che l’offesa a Menelao non fu che una scusa, che il lungo ritardo nel ritorno a Itaca non è facile da spiegare per un marinaio esperto come lui.

Diciamoci la verità: senza Penelope sposamadre che tesse e disfa, che aspetta e scrive nell’attesa, non ci sono sirene, circi, nausiche, polifemi e odissea coniugale che tengano. Penelope lo sa. Sa bene che è dal gomitolo sul suo grembo che proviene il filo di Arianna che guida Ulisse nel suo ritorno. Penelope è debole ma non ingenua. Io sono l’abbandonata di questo regno, il mendicante che guarda dietro il vetro. Quando lei era ancora una bambina, nel dopoguerra, suo padre venne assassinato. Lei non vuole più abbandoni. Vuole soltanto amore e mare. E sin dal primo verso va fino al mare, suo unico confidente, per chiedere aiuto, e il mare le risponde: aiuto. Isolata, afflitta, solo il mare a farle compagnia come un animale equivoco, come una triste fiera compassionevole. Telemaco non può, non deve essere il depositario del suo disinganno né l’erede ineluttabile della sua infelicità. Soltanto il mare. Soltanto l’amore. Il dopoguerra di Troia fu molto duro.

Itaca – tutto il libro – è un lamento d’abbandono e attesa, e del frutto nato dalla sua segreta unione: la speranza. Penelope guarda il mare che la isola e l’accompagna, il tenue azzurro dove ti sei perso, e ritorna al suo minuzioso compito quotidiano di tessere e disfare le sue poesie, che nessuno conosce: chi è lo straniero che vorrebbe comprovare il tuo lavoro?

È un lamento davanti al mare. Al mare chiede aiuto e compagnia e musica. Lo vede come una enorme lacrima slegata, canta al suo ritmo, scrive sulla linea dell’orizzonte il suo canto di marinaio in bilico, senza chiudere occhio (ricordo che pensavo che la mia migliore risposta era di non dormire), tesse la sua sonora stuoia che aspetta i passi di chi è andato via, perché l’attesa suona: mantiene l’eco di voci andate via…

Ulisse, da parte sua, fa fatica a tornare al grembo materno e coniugale, si lancia nell’avventura, si perde per quei mari degli Dei aspettando di vedere quel che accade, cercando non sa bene nemmeno lui cosa, ciò che si ostina, davanti a tutti e forse a se stesso, a definire ritorno, o semplicemente vita.

Ma Itaca è dentro, o non si raggiunge. In ogni caso è l’amore di Penelope che gli permette di andare di Calipso in Circe, di passione in isola. Senza quell’eterno tessere e disfare, senza quell’attesa tenace che attrae e respinge i pretendenti, senza quella infinita maglia di lana azzurro orizzonte per intimi inverni, Ulisse sarebbe soltanto un marinaio che si è smarrito, un goffo timoniere, un uomo alle intemperie. Lui sa di poter viaggiare soltanto se Penelope aspetta il suo ritorno. L’Odissea è anche un’ancestrale versione del matrimonio, tanto ripetuta da esser diventata volgare: il marito chissà dove e la donna a casa ad aspettare, a tessere, a respingere i pretendenti con i ferri da maglia, con la poesia.

Di quando in quando Ulisse, da qualche porto il cui odore gli ricorda le notti d’amore che cerca, la chiama per telefono, non soltanto per sapere come sta e dar segno di vita o dire che sta per arrivare, cosa che – dopo tanti anni – la sua sposa crede a fatica, ma per assicurarsi che lei continui ad aspettarlo. Non so se lui sa che la sua audacia e la sua odissea dipendono dalla pazienza di Penelope, dalla fiamma che soltanto lei mantiene viva, dall’amore famelico che provoca e alimenta la sua fuga, e attende il suo ritorno. Non so se Ulisse sa che l’attesa di Penelope è il vento che riempie le vele della sua nave. Però so che leggendo Itaca uno pensa: Povero Ulisse!, dopo aver pensato: Povera Penelope! E che questi due “poveri” tengono insieme, l’uno con la sua andata, l’altra con la sua attesa, il filo di voce e di Arianna che parla e unisce queste poesie.

Ci sono giorni, ci sono poesie, in cui Penelope guarda l’orizzonte con l’avidità del fuggitivo, con il desiderio di andarsene, di sfuggire al suo destino, pur sapendo – più che sapere lei sente – che non se ne andrà mai, che non abbandonerà mai Itaca perché Itaca è dentro, perché Itaca è lei. E perché il talamo nuziale è stato costruito in una vecchia pianta d’ulivo che ha ancora le sue radici piantate nella terra e non può essere spostato. In Penelope disfa sente che c’è sempre adolescenza e nulla nel tramonto, e mentre si identifica con quella luce che sembra stia andando via ma più che andarsene si spegne, diluendosi in se stessa, sente come uno scoppio di pazienza (che) avvolge il mondo in soavi abbracci di cenere.

Penelope non si inganna. Sa che più forte della paura che Ulisse non torni è che lui torni senza essere più lo stesso (Il benvenuto) o, peggio, che ritorni e non sia lui ma un altro uomo. (L’estraneo). Sa che Ulisse non è quel che è. Lei sa bene perché Eschilo lo chiamò figlio di Sisifo, perché Calderón lo volle protagonista degli incantesimi della colpa. Penelope conosce bene la sua condizione e anche quella del suo sposo. Io sono per lui peggiore di un tradimento: sono inspiegabile proprio come lui. Sa che la sua costanza, più forte della stanchezza, è sua nemica, e al tempo stesso, il suo rifugio. Sa che tutto questo è un sogno mendìco: perché, senza dubbio, avere non è da noi, ma sognare disperatamente sì.

Sa anche che durante l’attesa, senza la necessità di uscire da Itaca, ci sono viaggi e avventure, selvagge traversate che nulla hanno da invidiare a quelle di Ulisse, che non tutto è desolazione e solitudine, che nella tela che lei tesse, nelle sue poesie, è raccontata e cantata la storia della sua vita, il suo sangue, la sua gioia, la bimba stupita che non ha mai smesso di essere, tutto il suo amore.

Scritto tra il 1969 e il 1971, e pubblicato nel 1972, Itaca è per la poesia spagnola del Ventesimo secolo quel che è Penelope per la mitologia greca: una voce ignorata, un clamore sussurrato, una verità desolata e trasparente, una mano tesa e vuota, una poesia d’amore che chiede aiuto, una donna che aspetta, vedova di certezze e comprendendo che l’unica cosa possibile è morire accanto a te in un letto o in qualsiasi altro luogo, accettando il mio sonno e la tua veglia come l’apprendimento di un profondo prescindere che un giorno sarà definitivo.

Un libro emozionante che si chiude con un verso che sembra un epitaffio ma è invece una imperiosa massima di vita, la semplice e scioccante comprensione della propria solitudine:

Francisca Aguirre, accompagnati.

E con il felice paradosso che questa solitudine, nudità, autenticità, possano farci compagnia oggi nelle nostre attese di Itaca, nelle nostre intime guerre e dopoguerre di Troia.

È bene ricordare che Penelope tesseva e disfaceva un sudario.

 
 

 
 

THE TANGO FILES

 

Viaggiare insieme è come un tango, canta Piero Pelù. Il libro The Tango Files di Lourdes Vázquez, tradotto e curato da Brigidina Gentile, permette, grazie alla sua straordinaria ricchezza, di ribaltare la metafora. Si può dire allora: il tango è come un viaggio insieme ma, proprio come un viaggio fisico, il libro ne contiene molti altri e tutti su piani diversi.

The Tango Files sono un viaggio di ricerca nella storia e nella lingua ibrida del tango, attraverso coloro che lo ballano, coloro che lo cantano, coloro che ne parlano, coloro che lo vivono e che grazie a esso riescono a costruire un’alterità liberatoria; The Tango Files sono piccoli viaggi di analisi sociologiche; The Tango Files sono viaggi dentro storie di amore, di rifiuto, di perdita, di nostalgia, di migrazioni, sono viaggi nelle milonghe e nelle città americane e non solo. The Tango Files sono viaggi interiori dell’autrice, verso il passato e verso il futuro, in cui si incontrano passione, sesso, vino, nostalgia, affetti e soprattutto consapevolezza: di sé e dell’altro danzanti, di sé e dell’altro che vivono nel mondo che si può immaginare e accettare grazie al tango.

Leggendo il libro si diventa protagonisti di questi viaggi, di questi incontri, di questa ricerca interiore, leggendo il libro che Brigidina Gentile ha saputo così sapientemente farci entrare nelle vene, il tango diventa una nostra esigenza ma anche un punto d’arrivo.

«Adesso so cosa significa morire nelle mani del partner, come il cigno che strappò a Leda i suoi fianchi… È adesso che riesco a muovermi con quel particolare ritmo che diventa felpato, pausato o rapido e aggressivo, ma sempre con passo felino. È adesso che cammino il tango.» Viaggiamo insomma, verso qualcosa che è già dentro di noi sulle note del tango.

L’abilità di Brigidina Gentile riesce a conferirci attraverso parole poetiche la grandezza di un’opera bella quanto grande, quella di Lourdes Vázquez, incorniciata dalla prefazione di Melania Petriello e arricchita da preziose note oltre che dal testo originale.
 

Recensione di Maria Antonietta Crapsi

 
 

Non soddisfa perché stimola. La ricchezza di questo libro si scopre via via come una presina di zafferano, pochi milligrammi di polvere capaci di espandere la loro essenza in un numero incredibile di piatti.

Si può dire che l’Autrice dipinge come schizzi i brevi capitoli, o meglio li propone come rapidi brani musicali, ma servirebbero tante altre metafore per far capire che parla ai cinque sensi. Il potere evocativo è straordinario. Ci sono ricordi, immagini, emozioni e luoghi, e tutto è permeato dal ritmo del tango che è stato il filo conduttore della sua vita e ne rimane il fulcro.

Lo esprime bene la curatrice, Brigidina Gentile, che nel tradurre il testo ne ha subìto la fascinazione.

…ho sentito il tango entrare e uscire dalla mia testa e dai miei muscoli, e ho ballato con le sue parole tutto il tempo. Ho percorso miglia e miglia e ho attraversato gli anni, avanti e indietro nel tempo, restando attaccata alle sue parole e alla loro musica.

    Il tango è allo stesso tempo il protagonista e lo sfondo. Ma il suo ritmo dove nasce, quando? Come tutto ciò che è mitico non ha origini certe: lo si collega alla musica folklorica argentina, ma anche alla Avanera cubana e a tradizioni andaluse. Borges, che ha buon titolo per parlarne, lascia ai posteri una salomonica sentenza: “Sottoscrivo tutte le conclusioni e anche qualcun’altra”.

   Quello che è certo è che la tradizione del tango nasce dalla ricchezza multiculturale di un popolo ibrido, in cui confluivano immigrati di tanti paesi, insieme ai guappi di Buenos Aires e ai gauchos delle praterie. Ne dà testimonianza la lingua ibrida, il lunfardo (lingua “ladra”) codice sincretico sbocciato spontaneamente dalla fusione di tante lingue per dare voce a chi non poteva dominare la lingua ufficiale.

   Questa è la lingua del tango. Colpisce, nella tradizione di questo ballo, la molteplicità di livelli e di significati, da quelli immediati a quelli più simbolici, a cominciare dalle parole che lo definiscono. La parola “milonga” ad esempio può riferirsi a una trappola verbale, un giro di parole fatto per confondere e ingannare. Può indicare confusione o definire un tipo di donna. Ma è anche uno dei ritmi del tango, e infine è il luogo dove il tango si balla.

   Secondo l’Autrice questi luoghi imitano la doppia vita del ballerino di tango, perché là dove di giorno si svolgono attività da bar, circolo sportivo, museo, parco e via dicendo, la sera magicamente nascono sale da ballo.

   In questa doppia vita, io sento, lo sentiamo tutti, l’appartenenza a una comunità (…) che si libera dalla stanchezza e dal rigore del lavoro e dei problemi attraverso e proprio con il tango. Quando il tango comincia, e la frotta delle coppie comincia a muoversi, siamo una marea eccezionale che altera i battiti. La luna e la terra che si amano in pieno solstizio, perché il tango trascina tutto, smuove tutto, può tutto. /p>

   La danza è funzione del sacro. E il sacro, nel suo aspetto collettivo, attiene più all’aspetto identitario che a quello trascendente. La sacralità del tango sembra riposta proprio nel riconoscersi come il popolo del tango. Un popolo ormai senza confini.

    Lourdes Vàzquez conduce il lettore in un viaggio che è proprio come una danza in cui si alternano passi diversi ma sempre con leggerezza, con ritmo. Volteggiando passa dentro e fuori. Fuori, lungo la storia e la leggenda. Dentro nell’analisi sottile di una fascinazione che la tocca nell’intimo. Per lei il tango è qualcosa che dà insieme regola e libertà, che lega all’àncora e scioglie gli ormeggi.

   Il ballo ti riordina il tetto,
   ti restituisce la logica,
   ti fortifica l’ancoraggio e ti obbliga a generare un’alterità che ti toglie dall’oppressione.

   Infine, una frase illuminante:

     È quando la milonga mi cattura costruendo la mia unità senza far caso al vuoto.

Una poetica prefazione di Melania Petriello completa il libro, insieme al testo originale e a note accuratissime.

Il libro che celebra il tango, senza compiacimento letterario ma con l’affabulazione del vissuto, ora discreta ora più densa, che avete tra le mani, o sarebbe meglio dire sulla punta dei piedi, è dunque la partitura di ogni ballo possibile. Perché il tango li contiene, li ibrida, ne fa colore sincopato.

Queste parole di Lourdes Vázquez, “magnifica portoricana e pure tanghera”, portano alla verità più bella: il tango è storia, oltre che movimento. È parola piena, oltre che affondo delle mani sulla schiena che vira. È elegia di un popolo errante nei suoi chiaroscuri, oltre che cedimento perfetto al suono-compagno”. (dalla prefazione di Melania Petriello)

 

Recensione di Giovanna Repetto

 
 

“Magnifica portoricana e pure tanghera”, Lourdes Vázquez balla il tango con parole che camminano, attraversano città e continenti. Baires, Manhattan, Montevideo e Palermo. La definisce così Brigidina Gentile, che ha curato e tradotto con la grazia che le è propria The tango files, quindici documenti di un computer umano, perché è chiaro che Lourdes Vázquez custodisce nella sua mente e nel suo cuore, l’intera storia del tango, dai passi ai retroterra umani, sociali poetici e musicali. Pure se non la esibisce questa cultura, ma appunto la balla come si balla il tango, possibilmente ad occhi chiusi, perché la cecità favorisce quei ruoli che non sono statici, perché si influenzano a vicenda: «Il culto dell’unione senza copula», come ha scritto Gustavo Varela in Mal di tango. Citato da Lourdes a pagina 74, dove pure dice: «L’uomo governò i passi, la donna il tempo: entrambi la gestualità», e conclude: «La maledizione di Narciso». O anche (p. 37): «I corpi si trasformano in pantere. L’uomo decide, ma si lascia guidare dai gesti e dai movimenti della donna. L’uomo domina ma è la donna che sceglie in questa lotta esotica, quasi primitiva. Una coppia agile, forte, con le gambe intrecciate, che elabora passi quasi ginnici, senza paure o premonizioni, ma con una sottile cautela e con molta passione: questo è un tango milonghero». Un librino piccolo, raffinatissimo dalla copertina alle note finali (in fondo, anche il completo testo originale): da tenere in tasca e aprire a caso, per scoprire pillole di gioiosa condivisione o riflessive considerazioni sul dolore e sulle violenze che questa terra, ora globale, ora tutta migrante, ha sempre riservato agli emarginati, ai nuovi arrivati, ai peccatori. E figurateci alle peccatrici.

 

Recensione di Nadia Tarantini
su Leggendaria 119 del 2016