Salvatore Quasimodo

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Ognuno sta solo sul cuore della terra/ trafitto da un raggio di sole: / ed è subito sera” è la prima poesia raccolta in Tutte le poesie di Salvatore Quasimodo. Più poeta all’inizio che politico all’esordio del ‘30, Quasimodo via via in quegli anni cruciali trova il modo di distinguere più che di asservire la poesia alla politica. Soprattutto dopo il Nobel che, chissà, magari era già un premio politico. Il Nobel (1959) se lo disputa con Ungaretti, punito per non essere di sinistra. Oh Italia!

L’esordio di Quasimodo (1901-1968) che trovò fortunosamente il modus operandi di dedicarsi alla poesia, è tra il 1920 e il 1929. Dal ’30 seguono poesie più pregnanti che all’inizio. Del resto, anche se traduttore (passava la notte a studiare latino e greco e altre lingue – tradusse anche il Vangelo di Giovanni) che era comunque un modo per arricchire il suo profilo poetico, fu l’espressione scelta per sfuggire a un lavoro deprimente perché non poetico.

Pierangela Rossi

 
 
 
 
ANGELI
 
Perduta ogni dolcezza in te di vita,
il sogno esalti; ignota riva incontro
ti venga avanti giorno
a cui tranquille acque muovono appena
folte d’angeli di verdi alberi in cerchio
 
Infinito ti sia; che superi ogni ora
nel tempo che parve eterna,
riso di giovinezza, dolore,
dove occulto cercasti
il nascere del giorno e della notte.
 
 
 
 
 
 
TERRA
 
Notte, serene ombre,
culla d’aria,
mi giunge il vento se in te mi spazio,
con esso il mare odore della terra
dove canta alla riva la mia gente
a vele, a nasse,
a bambini anzi l’alba desti.
 
Monti secchi, pianure d’erba prima
Che aspetta mandrie e greggi,
m’è dentro il male vostro che mi scava.
 
 
 
 
 
 
SPAZIO
 
Uguale raggio mi chiude
In un centro di buio,
ed è vano ch’io evada.
Talvolta un bambino vi canta
non mio; breve è lo spazio
e d’angeli morti sorride.
 
Mi rompe. Ed è amore alla terra
ch’è buona se pure vi rombano abissi
di acque, di stelle, di luce;
se pure aspetta, deserto paradiso,
il suo dio d’anima e di pietra.
 
 
 
 
 
 
DOLORE DI COSE CHE IGNORO
 
Fitta di bianche e di nere radici
di lievito odora e lombrichi,
tagliata dall’acque la terra.
 
Dolore di cose che ignoro
mi nasce: non basta una morte
se ecco più volte mi pesa
con l’erba, sul cuore, una zolla.
 
 
 
 
 
 
TU CHIAMI UNA VITA
 
Fatica d’amore, tristezza,
tu chiami una vita
che dentro, profonda ha nomi
di cieli e giardini.
 
E fosse mia carne
Che il dono di male trasforma.
 
 
 
 
 
 
FRESCA MARINA
 
A te assomiglio la mia vita d’uomo,
fresca marina che trai tra i ciottoli e luce
e scordi a nuova onda
quella cui diede suono
già il muovere dell’aria.
 
Se mi desti t’ascolto,
e ogni pausa è cielo in cui mi perdo,
serenità d’alberi a chiaro della notte.
 
 
 
 
 
 
AVIDAMENTE ALLARGO LA MIA MANO
 
In povertà di carne, come sono
eccomi, Padre; polvere di strada
che il vento leva appena in suo perdono.
 
Ma se scarmire non sapevo un tempo
La voce primitiva ancora rozza,
avidamente allargo la mia mano:
dammi dolore cibo cotidiano.
 
 
 
 
 
 
IN ME SMARRITA OGNI FORMA
 
Altra vita mi tenne: solitaria
fra gente ignota; poco pane in dono.
In me smarrita ogni forma,
bellezza, amore, da cui trae inganno
il fanciullo e la tristezza poi.