preannuncia una catastrofe in forma di sospiro – Luciano Mazziotta

preannuncia una catastrofe in forma di sospiro - Luciano Mazziotta

 
 
in casa invece c’è quello che occorre
tre facce due parlano e l’altra
li osserva. poi quella che osserva
inizia a parlare e l’una che prima
parlava si ferma che adesso
li osserva oppure si alza
si lava le mani girata
che allora non guarda.
                   come se a turno
l’una o l’altra o quell’altra
dovesse star muta in un angolo.
tre facce due parlano e l’altra
dovesse fare la spia.
 
 
 
 
 
 
a volte è un pomeriggio e non si odiano a vicenda
frequentano piuttosto il disagio faccia a faccia
si danno delle regole instaurando una distanza
tra l’uno e l’altro e in mezzo
                   il cellulare silenziato
che vibra in superficie alla penisola
ai lati della quale faccia a faccia non si odiano
del tutto.
           non rispondono al telefono
lo ignorano vibrare sulla patina di marmo
non saprebbero reagire alle richieste di conferma
di essere felici o sopraffatti dalla calma
narrativa del momento che per caso non si odiano.
e un graffio si produce sulla patina di marmo
un buco una frattura che si vede il pianoterra:
una camera da letto gli inquilini in prospettiva
la domanda di un supporto cui almeno uno dei due
preannuncia una catastrofe in forma di sospiro.
 
 
 
 
 
 
eppure una data c’era una data che avremmo allora dovuto
svendere prima che questi poveri figli nascessero
a vivere come futuri pazienti dei nostri analisti
o di quello che ancora sconosce le colpe che abbiamo
raccolto e concesso in eredità: mostri e miracoli
e martiri e maschere. meglio
                   se avessimo allora interrotto
il progetto la casa la culla le frasi dotate di senso
soltanto qua dentro. la data era quella una cifra qualunque
sfogliata come una pagina bianca in agenda:
 
era quella la data prima che fossimo posti a sedere
a comporre ogni giorno la scena finale di melancholia.
 
 
(Luciano Mazziotta, Posti a sedere, Valigie Rosse, 2019)
 
 

In questi testi Luciano Mazziotta restituisce un quadro molto accurato di una situazione di convivenza impossibile, dove gli spazi della casa appaiono inabitabili e il fallimento relazionale tratteggia il disagio, l’insofferenza e le conseguenze di tale dissesto, anche e soprattutto, sui figli – costretti a ereditarne il carico di mancanze e di negatività.

Già dal primo testo, con un ritmo anfibrachico serrato e ossessivo – reiterato nelle ripetizioni – si rende perfettamente questo clima intollerabile, oppressivo: “in casa invece c’è quello che occorre”, asserzione che viene negata istantaneamente dai versi successivi, rivelandone l’ironia amara: la descrizione puntuale dei rapporti di diffidenza reciproca, degli screzi quotidiani che alimentano il distacco e i dissapori, ci lasciano immaginare una coppia che vive la fase terminale del loro disamore, e un figlio (“tre facce due parlano e l’altra / li osserva”) che ne è testimone, suo malgrado.

Nel secondo testo i dettagli si fanno chirurgici, rendendo la quotidianità dell’insofferenza reciproca e del disamore limpida e terribile: “a volte è un pomeriggio e non si odiano a vicenda / frequentano piuttosto il disagio faccia a faccia”, evidenziando l’insensatezza dello stare “assieme” “instaurando una distanza”, mentre il pensiero è verso “il cellulare silenziato” e le “richieste di conferma / di essere felici”.

Nonostante ciò, il gioco (tremendo) del disamore (che alimenta l’odio citato e reiterato nel testo) impone di ignorare il telefono, di non rispondere. Eppure emerge, in ogni caso, il desiderio di evadere da questa situazione, in chiusa, nella “domanda di un supporto cui almeno uno dei due / preannuncia una catastrofe in forma di sospiro”: perché nonostante gli errori, la negatività e l’alienazione, che costringono a volta gli individui in relazioni tossiche e distruttive, la tensione è sempre verso un sentimento positivo, liberatorio, autentico.

E nell’ultimo testo le considerazioni più amare: “eppure una data c’era una data che avremmo allora dovuto / svendere prima che questi poveri figli nascessero” – esplicitando l’unica ragione per cui queste due persone conservano, come spesso accade, la parvenza di un nucleo familiare, che di fatto è inabitabile per se stessi e per i figli, per l’appunto.

Ecco poi la lista delle colpe raccolte e concesse in eredità: “mostri e miracoli / e martiri e maschere”: la consapevolezza che “il progetto la casa la culla le frasi dotate di senso / soltanto qua dentro” potevano e forse dovevano essere interrotte prima che fosse troppo tardi si avverte in tutta la sua terribile consapevolezza, dando al presente un sentore nitido di condanna, che appare insuperabile, irredimibile, irreparabile.

E insieme alla condanna arriva anche la pena, altrettanto certa, affidata alla scena finale del lungometraggio di Lars Von Trier: la serena accettazione dell’inevitabile fine del proprio mondo da parte del pianeta Melancholia, in un capanno improvvisato e fragilissimo e gli occhi definitivamente chiusi, scena che i protagonisti, meticolosamente, hanno contribuito tragicamente a costruire anno dopo anno.

Mario Famularo