Poesie familiari – Gabriella Sica

sica

Poesie familiari di Gabriella Sica è un volume di versi uscito per Fazi Editore nel 2001 (Premio Camaiore e finalista ai premi Metauro e Frascati) che poco più di un anno fa è stato ripubblicato in versione digitale sempre da Fazi (2013). Un libro che appare importante nella storia recente della poesia italiana proprio perchè diverso da quanto siamo abituati a leggere (almeno la mia generazione) in questi ultimi periodi.

Un libro che non nasconde i suoi padri, primo fra tutti il miglior Pascoli, il fanciulletto capace di una mitissima pietas e che pure guarda alla storia come ricerca del sé, della propria origine come parte integrante del proprio presente. Ed è la pietas, questo termine che era da molto che non sentivo e che un amico mi ha citato proprio qualche ora fa in relazione ad Olga (qui), che mi sembra spiegare meglio un titolo così semplice quanto ampissimo (per delle poesie così semplici quanto ampissime): Poesie familiari.

Perchè queste poesie familiari dicono familiare il mondo proprio in virtù della pietas, che è da sempre origine e fondamento non solo dell’uomo ma anche della sua famiglia, della sua società, della sua capacità di stare assieme. Un assieme che percorre la guerra, la storia, gli abbandoni esistenziali e quelli privati, più intimi, un assieme che incontra anche la natura rendendo non solo gli uomini famiglia ma anche il mondo un’enorme casa in cui essere, esistere. Una casa, un mondo, che non ha limiti temporali e nemmeno cronologie esatte se non quelle della memoria. Perchè la famiglia non è tanto la sua realtà quanto la sua memoria, in un tempo che inesorabilmente scorre e porta via le persone e i poeti («Questo povero tempo uccide i poeti!» / Così mi dicesti la sera ch’era / morta Amelia, calmo e sereno, / così ti sento dire mentre tutti / noi e un secolo di morte saluti).

Un verso poi più di tutti spiega cos’è la famiglia di Gabriella Sica e ancor più cos’è la sua pietas: ché la fede hai tanta e antica. Perchè questi sono versi di fede tanta e antica, inevitabilmente e inesorabilmente. Fede nell’uomo, nel suo mondo, fede nella natura, fede anche nella fede. Espressa perfino nella regolarità di una metrica perfetta e musicale, priva di sbavature o cedimenti, impeccabile prima di tutto a se stessa. Chiara, ma severa. Senza sperimentalismi ma intrisa di un classicismo pur fresco, toccante, denso di educazione sentimentale. Una metrica che assomiglia moltissimo e forse dice l’essenza più intima della moglie abbandonata di uno dei periodi più belli del libro: È solo un uomo ed è un marito.

 
 
 
 
 
 
 
 
Felicetta la cucitrice
 
 
Se era svelta Felicetta fanciulla!
A cogliere le ciliegie s’arrampicava
selvatica senza sapere nulla
e mai a nessuno i suoi baci dava.
 
Senza altre scuole che le elementari
e gli alberi sempre a lei dolci e cari,
saliva agile a contare sui tetti
i trilli delle felici allodolette.
 
In bicicletta va trafelata e pia
in viso un vento fresco l’accarezza,
la vita lieve gonfia di dolcezza,
le vesti bianche sono vele nell’aria.
 
Diritto e forte lo snello bel corpo
appare su e giù per la via Cassia,
onestamente a lenti e attenti passi
in vesti da lei cucite color porpora.
 
I lunghi e morbidi capelli neri
ha arrotolato stretti intorno al viso,
quando a ballare, senza pensieri,
contenta lei va come in paradiso.
 
C’era la guerra quando diciotto anni
aveva e della sua risata l’eco,
cucendo e ragionando con le amiche,
s’allargava, ignara degli affanni.
 
L’ago sul cuore non sentiva ancora
alacre tornando ai punti più e più volte,
se all’opera del cucito era intenta
come in una danza senza l’agro allora.
 
Quieta tra Bice, Dora e Ines stava
col gigliuccio e a croce sui ginocchi,
modesta il filo alzava e non gli occhi,
ma il cuore, quello si, quasi s’alzava!
 
Fuggiva di ogni bel ragazzo l’ombra
da vergine dei boschi primitiva,
promessa sposa al vicino e schiva,
a lui quanto pensava lì nell’ombra!
 
Felice d’aria nativa e al riparo
del poggetto amico per l’eterno,
era certa dell’appoggio materno
tra i prati caldi e il grano mai amaro.
 
Poco si curava di Mussolini
col telo di bisso in mano e il sole
che fa sfiorire il mondo e le viole.
Chi disfa il bel tessuto e i destini?
 
Finì la guerra e veloce in fretta
andò all’altare mite e sbigottita,
ferita, da quel giorno, Felicetta,
la cucitrice non fece più a vita.
 
 
 
 
 
 
 
 
Candida divinatrice
 
 
Ancora una volta seguendo l’umore
una donna etrusca il tempo scrutava
nel timore di scosse o d’una folgore:
il profondo come un poeta frugava.
 
Contava quanti anni ancora felici
dal numero dei passeri in volo,
traeva dell’incerto futuro auspici
da piccoli e oscuri prodigi del cielo.
 
Chiede se ara la terra o se miete,
com’era degli antenati il costume
alle scie attese di stelle e comete.
 
Il cielo un granaio azzurro crede,
i lampi e i tuoni i segnali evidenti
da divinare con la piena fede.
 
 
 
 
 
 
 
 
Gioisce il cielo, esulta la terra,
freme il mare e sussulta il cuore,
i campi e i fili d’erba si rallegrano
e tutti gli alberi, i boschi e i giardini,
per te Pietro che nato col sorriso
le chiavi hai già del mio paradiso.
 
 
 
 
 
 
 
 
Mi guidi come solo amore suole
quando quieto e bello te ne vai,
leggero come foglia per la via
e la mano mi tieni senza parole.
 
A seguire m’invogli le tue orme
in ogni parte ovunque del mondo,
quando mi guardi fino in fondo
al cuore che ora più non dorme.
 
Di cera sei e non di pietra, piccolo
tesoro fonte della mia gioia
ché la fede hai tanta e antica.
 
Mentre ti seguo io mi consolo,
più niente so d’ogni amara fatica
e del tempo che veloce fugge via.
 
 
 
 
 
 
 
 
Per Dario
 
 
«Questo povero tempo uccide i poeti!»
 
Così mi dicesti la sera ch’era
morta Amelia, calmo e sereno,
così ti sento dire mentre tutti
noi e un secolo di morte saluti.
 
Diceva un poeta inglese a Roma morto,
nell’acqua va il nostro nome scritto,
nel vento e sulla sabbia, caro Dario,
gentile amico ribelle negli anni.
 
Quando noi tutti morti saremo
e il nostro io deposto con pietà avremo
ancora torneranno le rondini,
il cielo azzurro, i fiori e le stagioni.
 
Noi qui siamo soltanto le staffette
d’una catena viva in tanto dolore,
nel tempo nostro amato e sacro,
con la torcia in mano della poesia.
 
                                        ottobre 1996
 
 
 
 
 
 
 
 
La capanna
 
 
Sorridi ora e mi guardi da una foto
con gli occhi nuovi d’un mattino antico,
in un giorno africano del trentacinque,
mi parli camminando altero e bello.
 
Splendi in un’abbagliante luce
tra dolci donne arabe e bei cavalli,
c’è una povera capanna in paglia
e intorno vesti bianche come vele.
 
Venticinque anni avevi quel giorno,
se per caso incontrato ti avessi,
avrei potuto anche innamorarmi
 
e poi abbracciarti, esserti devota
come la bambina che sono stata.
Così non ci sarebbe più lontananza.
 
 
 
 
 
 
 
 
È solo un uomo ed è un marito
 
 
Andate voi versi miei dolci e cari,
rapidi e intensi a chi m’è sempre caro,
fate che lui ritorni presto a casa.
Da troppo tempo io non so dove
sia andato a stornare dal cuore
suo stanco il peso oscuro della vita.
È solo un uomo ed è un marito
che sempre meno spazio occupava
nella casa, ora è del tutto sparito.
 
Una donna nuova non so se ha ora,
che è ignara o antiche sfide vuole.
Dove sia andato non so certo dire.
Della vita familiare il male sentiva,
certo non ne aveva gioia alcuna
per essere così fuggito via.
È solo un uomo, era il mio uomo gentile
di poco conto e di parole sempre poche
nei lontani giorni sereni e quieti.
 
Ditegli del bene che gli voglio
mai molto detto nel passare onesto
di tante ore, momento per momento.
L’amore che gli porto dura ancora,
anche se sola ormai da troppo tempo
nel grande letto io passo la notte.
È solo un uomo di non gran peso,
leggero sempre come dolce piuma
che sul cuore m’ha lasciato un gran peso.
 
Voi più di me sapete cosa dire,
versi che fede avete in chi è partito.
Nella sua casa con pazienza antica
aspetto il ritorno senza che mi dica
perchè si sia così tanto smarrito.
È solo un uomo ed è un marito.
 
 
 
 
 
 
 
 
I papaveri
 
 
Papaveri col sangue che va in fiore
come anfore rosse al cielo in offerta
tra l’erba, il grano d’oro e di spelta,
nei miei giorni di fuoco e di rossore.
 
Canestri di gioia mai più sentita,
dove non c’era il dolore là sparsi,
riarsi d’oblio e litanie per amarsi,
come neri stormi nella mia vita.