Poesie – Alberto Moravia

Bozza automatica 2185

Poesie, Alberto Moravia (Bompiani Editore 2019, a cura di Alessandra Grandelis).

Esce in questi giorni, per Bompiani e per la cura di Alessandra Grandelis, la raccolta di Poesie di Alberto Moravia. Un’operazione non priva di significato e con un impatto estremamente interessante. In primissima battuta il nemmeno troppo celato sottointeso: si tratta di un’operazione documentale. Che già così avrebbe un significato di tutto rispetto. Poi le critiche apparse sui social media che si dividono tra chi era meglio non pubblicarle e chi nonostante tutto mi piacciono. Tra chi le considera un momento basso della letteratura di un grandissimo autore del Novecento e chi nonostante tutto le apprezza.

Ma quale significato ha un libro di poesia? Perché, da stessa ammissione della Grandelis in prefazione, queste poesie appaiono lavorate, editate, strutturate in diversi momenti tra gli anni settanta e gli anni ottanta tanto da apparire come un libro in formazione. Non poesie sparse ma una volontà unica, un tracciato. E questo ci obbliga a trattarle come tale e a domandarci che significato ha un’opera di poesia.

Uno di questi, chi scrive ne è convinto, è l’agire in un determinato gruppo sociale e in un determinato periodo (che è tanto più lungo quanto più grande la poesia). Nello specifico nel popolo dei poeti, dei critici e dei lettori di poesia. Per il quando chiamiamo in causa le parole della succitata prefatrice:

 

Qualcuno potrà dire che i testi mancano di una specificità poetica. Va ricordato che Moravia inizia a scriverli in un decennio che prende avvio nel 1971, dopo l’abiura delle regole da parte della neoavanguardia e la valorizzazione di una poesia inclusiva di cui parla Montale nel 1964 a proposito di una linea prevalente che si apre al ragionamento, alla cronaca e al racconto. Il 1971 è il momento in cui Montale rompe un lungo silenzio e pubblica Satura, virando lo sguardo poetico verso forme parodiche e satiriche, e Pasolini dà alle stampe Trasumanar e organizzar, dove viene affermata l’inutilità della poesia. […] Il 1975 è un anno simbolico per la poesia: muore Pasolini e Montale vince il premio Nobel per la letteratura pronunciando un discorso sulla resilienza della poesia nell’epoca della “mercificazione dell’inutile”.

 

Moravia scrive dunque, a distanza di decenni dalle sue prime prove poetiche adolescenziali, poesie che sono altro rispetto alla sua narrativa ma che si inseriscono all’interno di un contesto letterario preciso. Ma non le pubblica (almeno non tutte). E cosa succede oggi che vengono date alle stampe? Succede che vengono sostanzialmente bollate come letteratura di serie b di un grandissimo autore a cui si deve perdonare questa sbavatura, questo divertissement.

Ma se accettiamo che un’opera di poesia agisce in un determinato periodo allora ha senso chiedersi cosa produce e perché lo produce. Prendiamo alcuni testi a esempio:

 
 
Il disperato
 
Sono disperato
da sempre
ma la disperazione
non dovrebbe essere
un’abitudine
e allora
non resta
che andare
fino in fondo
laggiù
da dove
non si può
tornare indietro.
 
 
 
 
 
 
La gatta
 
Hai stretto il cazzo
in pugno
come una borsa
piena di denari
poi l’hai leccato
dappertutto
come fa la gatta
al figlio
appena nato.
 
 
 
 
 
 
Inesperienza
 
Avevo sempre pensato
che la morte
fosse terrore
o tentazione
mai avrei immaginato
che si presentasse
con le sembianze
floride e ridanciane
della vita.
 
 
 
 
 
 
Paragone
 
La vita è come una pallina
di mercurio
si spezza
si frantuma
si polverizza
sotto il pollice
del pensiero
ma poi si riforma
pallina liquida
così pesante
di angoscia.
 
 
 
 
 
 
Il poeta
 
Avrei voluto
essere
un poeta
non sono stato
che un romanziere
tanto peggio
per me
ho sbagliato
la sola
vita
che mi era stata
concessa
di vivere
a meno che essere
poeta
sia proprio questo
temere
di non esserlo.
 
 

Il dubbio che immediatamente viene è, a fronte delle critiche a Moravia poeta:

 

e se queste poesie le avesse pubblicate oggi un autore vivente?

 

Prendendo atto delle pubblicazioni di poesia contemporanea non sono assolutamente certo che non avremmo riscontrato recensioni dai toni elogiativi, che inneggiano alla frattura, al colpo in pancia. Eppure su questi testi pesa il nome di Moravia. O meglio, l’immagine di un Moravia. Da questo emerge un dato di fatto semplicissimo:

 

leggiamo il nome dell’autore e ci aspettiamo qualcosa

 

Moravia delude perché ci aspettiamo qualcosa. Sia chi ha letto approfonditamente Moravia sia chi sa solo (e faccio riferimento alle critiche sui social media) che è un autore importante. Noi ci aspettiamo qualcosa e questo implica che non stiamo leggendo l’opera ma la stiamo mettendo a confronto con un nostro preconcetto, una nostra aspettativa. E tanto rappresenta e delinea un nostro limite come lettori. Non è questa la sede per approfondire il limite del lettore contemporaneo (che poi, lo sappiamo, va a intersecarsi con il limite del poeta contemporaneo) ma dobbiamo accettare che il sapere che è Moravia cambia il nostro giudizio. Certo la domanda poi diventa un’altra:

 

e allora cosa ci aspettiamo?

 

Guardando la produzione contemporanea ci aspettiamo l’affondo nell’umano, il verso penetrante, l’immagine che colpisce. Quando ci approcciamo a un libro di poesia cerchiamo lo spaesamento, il tonfo. Cerchiamo il grande autore (quasi mai il grande libro) preferibilmente di appena 20 anni o poco più. La Grandelis citando la mercificazione dell’inutile tutto sommato non afferma cose diverse. Anche la poesia oggi è divenuta merce di consumo a due direzioni: deve soddisfare il lettore (inteso non più come critico ma come massa, quindi sempre meno colto) e deve indicare chiaramente l’autore.

Ma questo porta a un’ulteriore questione che, nella fascia più specializzata dei lettori, non può passare inosservata. Come detto, senza il nome di Moravia, questi testi oggi verrebbero con tutta probabilità elogiati. Eppure sono stati scritti in un momento di abiura delle regole, di valorizzazione di una poesia inclusiva (sempre per citare la Grandelis). Questo può ben indicarci che dopo quasi 50 anni non siamo andati molto avanti. Abbiamo qualche nome, certo, ma leggendo sempre dalla prefazione troviamo affermazioni che potrebbero benissimo essere di un libro di un autore contemporaneo vivente:

 

Nei componimenti moraviani sono individuabili alcune costanti del clima culturale e poetico che è disponibile ad accogliere tutta la realtà restituita con un linguaggio semplice e quotidiano. La “plurivocità”, “l’interferenza del discorso diretto”, “il monologo interiore”, “il registro prosaico-ragionativo” di cui parla Afribo a proposito della poesia degli anni settanta, si ritrovano nei testi moraviani.

 

Oppure, e qui per sottolineare il concetto (un po’ provocatoriamente, lo si ammette) oscuro ogni riferimento a Moravia:

 

Quella […] è inequivocabilmente una poesia narrativa anche quando frantuma il discorso con versi-parola che ricordano Ungaretti – poeta amato e vicino ad Apollinaire – e che ungarettiani non sono. Non c’è nulla in […] della poesia pura condensata in vocaboli che vogliono farsi portatori di una rivelazione; gli interessa comunicare un’esperienza dentro il quotidiano, magari con i propri oggetti-feticcio (la lampada, la finestra) che si fanno veicoli dell’interiorità.

 

Le Poesie di Alberto Moravia sfuggono e sfioratamente dispiacciono perché non assolvono a un preconcetto del lettore che rifiuta la staticità decennale della poesia italiana. Ricchissima di produzione, di fermento, ma sostanzialmente ferma. E Moravia ce lo mostra a distanza di decenni agendo oggi grazie a questa pubblicazione.

Certo possiamo sempre appellarci al libro documentale, al fatto che non è grande come lo è in narrativa. Resta un libro che evidenzia che il problema non è l’opera ma il lettore. E senza lettore non ci sarà scrittore, o poeta. Resta un libro che ha la capacità di dire qualcosa, di mostrare limiti, di fare critica. Tanto basta, per chi scrive, a chiamarlo libro di poesia.

Alessandro Canzian

 
 
 
 
 
 
Ricordo dell’Idroscalo
 

(L’assassino di Pier Paolo Pasolini ha detto in un’intervista al “Corriere della Sera” che sa di avere ucciso un grand’uomo, che è pentito, che vuole leggere i libri di Pasolini.)

 
No, non hai ucciso un grand’uomo
non hai ucciso neppure un uomo
hai tentato di uccidere te stesso
senza riuscirci
Ti stava davanti
l’hai guardato e hai creduto
di vedere te stesso
proprio te stesso
come in uno specchio
con la tua miseria
la tua ignoranza
la tua astuzia
la tua abbiezione
e allora ti sei odiato
per quello che eri
per quello che non eri
per quello
che non potevi essere
ti sei odiato e mentre
dal membro molle ti sgocciolava
lo sperma or ora
venduto
e nella tua mente
tutto era confusione e schifo
tuo padre e tutti gli altri padri
d’Italia
ti hanno additato nella faccia
di Pasolini
la tua faccia di sottoproletario
che si vende alla stazione
e ti hanno ordinato
di spaccarla appunto
come si spacca lo specchio
che ci riflette
Le tue scarpe alla malandrina
larghe di tomaia strette in punta
imbarcavano la sabbia fredda e grossa
il vento ti soffiava
fastidioso in faccia
senza portati sollievo
l’aria era come la sabbia
fredda e grossa
e hai capito che era venuto il momento
della lorra suprema
con te stesso
Hai visto un cancello
al di là c’era la notte
e il cancello era rosa
sul nero della notte
rosa come il foro
tra il nero dei peli
rosa come la ferita
in cima
alla testa di Pasolini
tra il nero dei capelli
Ti sei chinato e con te
si è chinato tuo padre e tutti gli altri padri
d’Italia
hai raccolto la tavoletta
e poi hai vibrato il colpo
e con te l’hanno vibrato tuo padre
e tutti gli altri padri
d’Italia
Ahimè ho ucco un grand’uomo
col primo colpo ho distrutto il ganglio
che gli faceva scrivere le poesie
ahimè ho ucciso un grand’uomo
mai più poesia dopo il primo colpo
mai più poesia
Ahimè ho ucciso un grand’uomo
col secondo colpo ho distrutto il ganglio
che gli faceva scrivere romanzi
ahimè ho ucciso un grand’uomo
mai più romanzi dopo il secondo colpo
mai più romanzi
Ahimè ho ucciso un grand’uomo
col terzo colpo ho distrutto il ganglio
che gli faceva fare i film
ahimè ho ucciso un grand’uomo
mai più film dopo il terzo colpo
mai più film
Adesso Pasolini non era più Pasolini
dopo il terzo colpo
era me e allora ho capito
che
Pasolini doveva morire
perché era me e mio
padre e tutti i padri
d’Italia
mi avevano condannato
a morire come
un cane arrabbiato
Così ho massacrato di botte
quell’uomo che non era più un
grand’uomo
e non poteva più scrivere poesie
comporre romanzi
girare film
ed era me, proprio me
e nessun altro che me
L’ho inseguito
a colpi di tavoletta
gli ho spezzato
tante ossa
nella testa
nelle mani
nelle braccia
nella schiena
Quand’è caduto
sono caduto con lui
ma non era morto
non era morto
allora sono salito in macchina
ho acceso il motore
ho girato le ruote
ho acceso i fari
Era lì
ero lì
nella luce dei fari
un mucchio di ossa spezzate
ma ancora vivo
ho girato le ruote
e ho premuto il pedale
dell’acceleratore
gli sono passato sopra
poi ho fatto marcia indietro
e gli sono ripassato sopra
Dicono che gli ho fatto
scoppiare il cuore
che aveva il fegato
spappolato
che la mascella
era divelta
ma che cosa non si farebbe
contro se stessi
in certi momenti
Quando sono stato fuori
del recinto
mi sono trovato al volante
di una Alfa Romeo Duemila
grigia metallizzata
ho capito che ero
ormai
Pier Paolo Pasolini
Un uomo ricco potente
niente a che fare con la borgata
niente a che fare con la stazione
niente a che fare con me stesso
io ero rimasto morto
come un cane arrabbiato
nel recinto
con tutte le ossa spezzate
ucciso a bastonate
come un cane rabbioso
e adesso ero Pasolini
al volante
della Duemila
Correvo dritto e calmo
sul lungomare ero Pasolini
senza poesia, senza romanzi
senza cinema
seduto al volante
dell’Alfa Romeo
grigia metallizzata
Poi ho riaggiustato lo
specchietto
sopra il parabrezza
e allora mi sono visto
ho visto
che ero pur sempre io
che disperazione
che sconforto
che vergogna
io il sottoproletariato
condannato a morire
da mio padre e da tutti
gli altri padri
d’Italia
Ahimè ho ucciso un grand’uomo
ma adesso leggerò i suoi libri
tutti nessuno escluso
le poesie
i romanzi
i saggi
le commedie
gli articoli
gli appunti
e quando mi presenterò davanti ai giudici
della Corte di Appello
dirò che ho ucciso un grand’uomo
che mi sono pentito
che ho letto i suoi libri
E allora sarò assolto
e tornerò indietro
alla borgata
alla famiglia
Eccomi di nuovo alla stazione
ecco al volante dell’Alfa Romeo
Duemila
grigia metallizzata
arriva Pasolini
Mi fa cenno, salgo
“dove andiamo?”
gli dico: “all’idroscalo”
Ahimè tutto ricomincia
eppure
ero pentito
e avevo
letto tutti i suoi libri.