POESIA A CONFRONTO: Milano

Giovanni Raboni 1

 
 

POESIA A CONFRONTO: Milano
PAGLIARANI, MAJORINO, RABONI, CATTANEO

 
 

Milano è città da sempre legata alla poesia; i suoi figli hanno scritto molte pagine dedicate a lei, all’insegna di quel realismo che da sempre connota la scrittura degli autori lombardi a partire dalla scuola di Carlo Porta, Giuseppe Parini, Alessandro Manzoni.

Milano, simbolo della città produttiva, della capitale industriale del paese, è stata al centro del boom economico italiano degli anni ’60, diventando testimone di tutte le evoluzioni e le contraddizioni di questo modello economico. Era quindi inevitabile che la poesia contemporanea si facesse carico di questa testimonianza, lasciando pagine indelebili che ancora oggi hanno una grande forza espressiva.

Nel Pagliarani del poema (o romanzo in versi) de La ragazza Carla è memorabile la rappresentazione del cielo “contemporaneo” di Milano con quel “colore di lamiera” a prolungamento dei capannoni e delle fabbriche, quasi un tutto indistinto. È un “cielo d’acciaio”, autoritario, che diventa specchio di una nuova morale tutta volta alla produzione e al profitto. Bisogna saper diventare parte di “quella gente che marcia al suo lavoro /diritta interessata necessaria”, fedele alla nuova legge del capitalismo da cui non c’è scampo perché “non c’è / scampo da noi nella vita”.

Al nuovo mondo delle banche e dell’industria rivolge la sua attenzione anche Majorino nell’incipit del poema La capitale del Nord in cui la rappresentazione del capitalismo ha toni di particolare durezza: le banche “dan vita o morte in crediti d’usura”, l’operaio è associata all’immagine de “l’asino alla mola”, tutto appare asservito al denaro. La produzione è legata indissolubilmente al “cordone ombelicale / del capitale” che impone le sue regole disumanizzanti, il progresso è solo illusorio nella sua curva di salita che anticipa una discesa ancora più rapida, con “trapassi / violenti e luminosi”: l’intera città sembra poggiare su piedi d’argilla (“il tufo è ancora base ai grattacieli?”).

In Raboni è il perbenismo a essere denunciato, con i suoi nuovi piani urbanistici, in una città che cerca il “risanamento” delle zone più degradate solo in nome di un’invocata rispettabilità, con il malcelato intento della speculazione. La città perde così le sue radici, comprese quelle più popolari, autentiche (“Di tutto questo / non c’è più niente”). In quel finale (“A me sembra che il male / non è mai nelle cose”) negare la responsabilità delle cose significa attribuire tutto il male all’uomo. Senza appello.

Con Simone Cattaneo assistiamo infine alla rottura definitiva: la falsità della Milano bene viene denunciata e smascherata per parlare del malaffare e dell’ipocrisia che la dominano (“Milano ti amo dalla ’ndrangheta al Cenacolo Vinciano”), della integrazione non avvenuta, della vita dei bassifondi, dei diseredati (“vivono in macchine abbandonate in balìa / del gelo, torce di immondizia, corpi vivi ma già in avanzato stato / di decomposizione”). Milano è anche la psicosi quotidiana di chi vi vive, costretto a subire questa idea di civiltà e produttività forzata, di allineamento alla convenzione imposta. Rappresentare questa condizione spinge Cattaneo a usare un linguaggio senza mediazione, fortemente prosastico e sicuramente di frontiera, nella consapevolezza di uno stile nuovo, intransigente.

Fabrizio Bregoli

 
 
 
 
ELIO PAGLIARANI
(da La ragazza Carla e altre poesie – Mondadori, 1962 – prima in Menabò 2, 1960)
 
LA RAGAZZA CARLA – II, 2
 
[…] Sono momenti belli: c’è silenzio
e il ritmo d’un polmone, se guardi dai cristalli
quella gente che marcia al suo lavoro
diritta interessata necessaria
che ha tanto fiato caldo nella bocca
quando dice buongiorno
è questa che decide
e son dei loro
non c’è altro da dire.
E questo cielo contemporaneo
in alto, tira su la schiena, in alto ma non tanto
questo cielo colore di lamiera
sulla piazza a Sesto a Cinisello alla Bovisa
sopra tutti i tranvieri ai capolinea
non prolunga all’infinito
i fianchi le guglie i grattacieli i capannoni Pirelli
coperti di lamiera?
È nostro questo cielo d’acciaio che non finge
Eden e non concede smarrimenti,
è nostro ed è morale il cielo
che non promette scampo dalla terra,
proprio perché sulla terra non c’è
scampo da noi nella vita.
[…]  
 
 
 
 
 
GIANCARLO MAJORINO
(Da La capitale del Nord – Schwarz, 1959)
 
O mia città vedo le porte gli archi
che un tempo limitavano il tuo cauto
intrecciarsi di case strade parchi
oggi spezzarti come una frontiera
o come una catena di pontili
congiungere le tue zone più vili
ai box del centro dove grandi banche
rivali o consociate in busta chiusa
dan vita o morte in crediti d’usura
legate col cordone ombelicale
del capitale e in loro trasformate
e quelle in queste ritmica simbiosi
le sedi razionali dell’industria
con l’asino alla mola e i nuovi impianti
la rapida salita – la discesa
più rapida – la sedia dei trent’anni
intorno curve schiene di negozi
la Galleria col tronco fatto a croce
in fondo oltre la Scala la gran piazza
Cavour congestionata la questura
la pietra dell’Angelicum trapassi
violenti e luminosi in via Manzoni
il tufo è ancora base ai grattacieli?
[…]   
 
 
 
 
 
GIOVANNI RABONI
(da Le case della Vetra, Mondadori, 1966)
 
RISANAMENTO
 
Di tutto questo
non c’è più niente (o forse qualcosa
s’indovina, c’è ancora qualche strada
acciottolata a mezzo, un’osteria).
Qui, diceva mio padre, conveniva
venirci col coltello … Eh sì, il Naviglio
e a due passi, la nebbia era più forte
prima che lo coprissero … Ma quello
che hanno fatto, distruggere le case,
distruggere quartieri, qui e altrove,
a cosa serve? Il male non era
lì dentro, nelle scale, nei cortili,
nei ballatoi, lì semmai c’era umido
da prendersi un malanno. Se mio padre
fosse vivo, chiederei anche a lui: ti sembra
che serva? e il modo? A me sembra che il male
non è mai nelle cose, gli direi.
 
 
 
 
 
 
SIMONE CATTANEO
(Da Peace & Love – Il Ponte del sale, 2011)
 
Arrivano stranieri bramosi di niente dagli altri continenti,
mi auguro non si integrino ma sgozzino i nostri ragazzi,
violentino le nostre donne chiuse in chiese, palestre e discoteche,
mi ammazzino per primo sarà un piacere, basta sorrisi avvizziti
al gin, sconfinamenti nei campi magnetici, non mi interessa se
la statica si equivalga alla dinamica, è giunta l’ora che i
rottami privi di sesso dai dialetti strani: albanesi, criminali o
calabresi brucino questa nuova Milano di Averna e cambiali, nessuna
visione metaprospettica, vivono in macchine abbandonate in balìa
del gelo, torce di immondizia, corpi vivi ma già in avanzato stato
di decomposizione. Milano ti amo dalla ’ndrangheta al Cenacolo Vinciano
ma sentire una vecchia canzone alla radio e poi ringiovanire
di dieci anni non serve a nulla, è un saldo di fine stagione
dieci Tavor da un ml e due litri di vino bianco non fanno più la
differenza è solo un vapore che ti assale alle spalle:
è un verde chiaro lo sfondo di questo giorno.