POESIA A CONFRONTO – La malattia

POESIA A CONFRONTO – La malattia

 
 

POESIA A CONFRONTO – La malattia
JACOPONE, QUASIMODO, MERINI, VALDUGA

 
 

La malattia è parte ineludibile delle nostre vite, ci pone di fronte alla nostra fragilità di esseri viventi, biologicamente determinati: è una delle prove più dure della vita, lascia solchi profondi, spesso porta a modificare la nostra percezione del mondo, il nostro rapporto con gli altri e con noi stessi. A questo tema, particolarmente impegnativo, è dedicato il confronto di oggi.

Partiamo da una celebre “laude” di Jacopone da Todi, dove l’autore invoca su di sé una serie di malanni e flagelli (sempre e ovunque: “e ià mai non trovi luoco / che io affritto non ce sia”), perché con il loro tramite, con la sofferenza fisica, sia possibile una redenzione della propria anima, ricongiungersi autenticamente con il Padre: prospettiva, questa, tutta tipica di certa mistica e spiritualità medievale (si pensi al cilicio). Le quartine si succedono incalzanti grazie al gioco delle rime; il ritmo è martellante, amplifica con enfasi il messaggio, senza finti pudori o esitazioni. La malattia è la giusta punizione per chi ha tenuto Dio “in villania” pur essendo stato creato in sua grazia (“in tua diletta”), grazia che non ha saputo meritare e guadagnarsi.

La poesia di Quasimodo, scritta durante la convalescenza all’ospedale Botkin di Mosca, è dedicata a una “infermiera della sorte”, una perfetta sconosciuta. Eppure nel momento della fragilità, della sofferenza, bastano le attenzioni di un’infermiera a ridare speranza: da figura anonima Varvara Alexandrovna diventa emblema della “Russia umana / del tempo di Tolstoj o di Majakovskij” in contrasto con il “gelo” della sua terra, diventa quasi una sorta di seconda madre, perché nella malattia ci si riscopre tutti uguali, “una moltitudine di mani che cercano altre mani”.

Alda Merini ci parla ne “La Terra Santa” della sua ben nota esperienza autobiografica, quella della clinica per malattie mentali (più disumanamente e prosaicamente, il “manicomio”), un ambiente in cui il malato viene degradato moralmente, incompreso dagli stessi medici che dovrebbero curarlo: è il medico allora a essere il vero folle, così “devastato / dalla sua incredibile follia”, lui che crede di poter sedare il “sangue irruente di poeta”. Chi resta irrimediabilmente ferito a morte è però sempre il malato, chiuso nella sua gabbia di costrizioni e sofferenze, capace solo di ripetersi “le nenie del martirio”. È un linguaggio crudo quello della Merini, duro e senza appello: è la vita che si travasa intera, senza mascheramenti, nella poesia.

Altrettanto caustica la Valduga che ci presenta il dramma di una malata “terminale”, appunto ospitata nella “corsia degli incurabili”, “dimora infernale” dove si vive solo “amore senza amore, criminale”, dove “il male si getta con le pale”: le terzine sono incalzanti con quell’insistenza delle rime in -ale, ribadite dalla stessa malata che cerca alla fine, a fatica, di liberarsene per dare spazio alla “aurora”, a una luce, per quanto labile, comunque salvifica. Tuttavia, credere a una qualche forma di remissione dal male è solo illusorio, frutto di auto-condizionamento, come avviene – chiude ironicamente la malata (o l’autrice?) – con la “pubblicità”.

Fabrizio Bregoli

 

 

 

 

JACOPONE DA TODI (1236-1306 ca.)

 

O Segnor, per cortesia,
manname la malsania,

 

A me la freve quartana,
la contina e la terzana,
la doppia cotidïana
co la granne etropesia.

 

A me venga mal de denti,
mal de capo e mal de ventre,
a lo stomaco dolor pognenti,
e ’n canna la squinanzia.

 

Mal degli occhi e doglia de fianco
e l’apostema dal canto manco;
tiseco ma ionga en alco
e d’onne tempo la fernosia.

 

Aia ’l fecato rescaldato,
la milza grossa, el ventre enfiato,
lo polmone sia piagato
con gran tossa e parlasia.

 

A me vegna le fistelle
con migliaia de carvoncigli,
e li granchi siano quilli
che tutto repien ne sia.

 

A me vegna la podagra,
mal de ciglio sì m’agrava;
la disenteria sia piaga
e le morroite a me se dia.

 

A me venga el mal de l’asmo,
iongasece quel del pasmo,
como al can me venga el rasmo
ed en bocca la grancìa.

 

A me lo morbo caduco
de cadere en acqua e ’n fuoco,
e ià mai non trovi luoco
che io affritto non ce sia.

 

A me venga cechetate,
mutezza e sordetate,
la miseria e povertate,
e d’onne tempo en trapparia.

 

Tanto sia el fetor fetente,
che non sia null’om vivente
che non fugga da me dolente,
posto ’n tanta ipocondria.

 

En terrebele fossato,
ca Riguerci è nomenato,
loco sia abandonato
da onne bona compagnia.

 

Gelo, granden, tempestate,
fulgur, troni, oscuritate,
e non sia nulla avversitate
che me non aia en sua bailia.

 

La demonia enfernali
sì me sian dati a ministrali,
che m’essercitin li mali
c’aio guadagnati a mia follia.

 

Enfin del mondo a la finita
sì me duri questa vita,
e poi, a la scivirita,
dura morte me se dia.

 

Aleggome en sepoltura
un ventre de lupo en voratura,
e l’arliquie en cacatura
en espineta e rogaria.

 

Li miracul’ po’ la morte:
chi ce viene aia le scorte
e le vessazione forte
con terrebel fantasia.

 

Onn’om che m’ode mentovare
sì se deia stupefare
e co la croce signare,
che rio scuntro no i sia en via.

 

Signor mio, non è vendetta
tutta la pena c’ho ditta:
ché me creasti en tua diletta
e io t’ho morto a villania.

 

 

 

 

 

SALVATORE QUASIMODO
(da Dare e avere – Mondadori, 1966)

 

VARVARA ALEXANDROVNA

 

Un ramo arido di betulla batte
con dentro il verde su una finestra a vortice
di Mosca. Di notte la Siberia stacca il suo vento
lucente sul vetro di schiuma, una trama
di corde astratte nella mente. Sono malato:
sono io che posso morire da un minuto all’altro;
proprio io, Varvara Alexandrovna, che giri
per le stanze del Botkin con le scarpette di feltro
e gli occhi frettolosi, infermiera della sorte.
Non ho paura della morte
come non ho avuto timore della vita.
O penso che sia un altro qui disteso.
Forse se non ricordo amore, pietà, la terra
che sgretola la natura inseparabile, il livido
suono della solitudine, posso cadere dalla vita.
Scotta la tua mano notturna, Varvara
Alexandrovna; sono le dita di mia madre
che stringono per lasciare lunga pace
sotto la violenza. Sei la Russia umana
del tempo di Tolstoj o di Majakovskij,
sei la Russia, non un paesaggio di neve
riflesso in uno specchio d’ospedale
sei una moltitudine di mani che cercano altre mani.

 

 

 

 

 

 

ALDA MERINI
(Da La Terra Santa – Scheiwiller, 1984)

 

Il dottore agguerrito nella notte
viene con passi felpati alla tua sorte,
e sogghignando guarda i volti tristi
degli ammalati, quindi ti ammannisce
una pesante dose sedativa
per colmare il tuo sonno e dentro il braccio
attacca una flebo che sommuova
il tuo sangue irruente di poeta.
Poi se ne va sicuro, devastato
dalla sua incredibile follia
il dottore di guardia, e tu le sbarre
guardi nel sonno come allucinato
e ti canti le nenie del martirio.

 

 

 

 

 

PATRIZIA VALDUGA
(Da Corsia degli incurabili – Garzanti, 1996)

 

Amore dove sei? Sto coì male…
Quest’alba che non viene è un tuo segnale?
Del cuore non so più il chi e il quale
e del resto infinito, abituale…
Alcuni versi dal mio memoriale.
Amore senza amore, criminale,
Saluta pure tu l’alba immortale!
Io non posso farti bene del male
Così, senza il magnetismo visuale,
Così, da questa dimora infernale
dove il malato è detto “terminale”…
La loro lingua, sempre più triviale!
Dicevo, amore mio, sto così male…
Era il male d’amore, il più banale.
A me il male si getta con le pale,
Mi seppellisce, dicevo, animale…
Adesso basta con le rime in ale!
Incurante di me, lassù, risale…
Ancora? basta! Ho detto … la mia aurora,
la bella aurora riposata, eguale.
Non stavo mica tanto male, allora…
Ma, a forza di ripeterlo, si sa,
Si finisce col crederlo, ed è fatta.
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